di Maria Teresa Renzi-Sepe

Venerdì scorso, alle ore 5:30 del mattino, minuto più, minuto meno, il signor Giacinto trovò il mio cadavere oltre la stazione di F.
Tra le erbacce e le canne smeraldo e ruggine, notò la mia mano perlacea: accarezzava il suolo e da lontano era difficile distinguere se fosse la mano di una donna o di un uomo. Così il signor Giacinto, che aveva appena completato il suo turno da autista di treni regionali, spense la sigaretta e venne da me.
Per quasi nulla al mondo avrebbe rimandato il dolce momento in cui si sarebbe trascinato finalmente nel suo letto, ma quello era un caso davvero fuori dall’ordinario. Fece un salto oltre la staccionata che divideva, sconquassata, il binario unico della stazione dalla campagna di F., e mi si avvicinò.
Il signor Giacinto, uomo solo e povero in canna, era un grande estimatore di gialli. Suo padre, un vecchio dalla sberla facile e dal gomito ancor più svelto, lo aveva cresciuto da solo, lasciandolo davanti il televisore dell’appartamento popolare in cui abitavano. All’epoca la televisione non aveva i colori, ma il suono sì e le espressioni degli attori erano così abbaglianti da lasciargli un ricordo indelebile.
Uomini tutto d’un pezzo, come Bogart e Gable, divennero i suoi padri putativi. Uomini che sparavano con una mano sola, mentre con l’altra strizzavano i fianchi della bionda di turno. Uomini che facevano cose difficili, ma anche la cosa giusta. Uomini che ammirava e a cui, un giorno, sperava di somigliare.
Giacinto mi squadrò cauto, accendendosi un’altra sigaretta. Con i piedi puntati verso il mio cranio, proiettava un’ombra lunga sul mio corpo, deviando la luce dell’alba.
Avevo un’espressione distesa. Non sono mai stata bella, né particolarmente fotogenica. Sono sempre stata una di quelle donne che appare arcigna dall’altra parte dell’obiettivo. Si dice che la macchina fotografica catturi l’essenza delle persone; eppure io non ero cattiva: ero solo arrabbiata.
Comunque, ho fatto lo stesso una brutta fine. E questo il signor Giacinto lo capì subito, quando notò lo squarcio che attraversava il mio ventre da sinistra a destra.
«L’assassino era mancino» disse lui, sebbene lì intorno non ci fosse nessuno ad ascoltarlo.
Il suo sguardo salì verso il mio seno. Vide svariati segni bluastri attorno al petto e al collo. Avevo una canottiera di seta rosa, era la mia preferita.
«Una violenza?» continuò lui. Eppure, avevo i pantaloni addosso: nessuno mi aveva toccata.
A quel punto, Giacinto sussultò. Come tutti gli ammiratori di Marlowe e di Holmes sanno bene, c’è solo una cosa che, in assenza di indizi, può rivelare qualcosa di un cadavere.
Oltre i miei jeans neri a zampa, spuntavano un paio di scarpe da bowling. Le suole lisce e piatte erano consumate dall’uso dei giocatori. Avevano un motivo a strisce rosse e blu, con la fibbia in stretch ben tirata. Erano qualche numero più grandi del mio piede, così che la mia figura, nel complesso, ne risultava comica: una morta squartata con dei piedi giganti.
«Che diamine è successo qui?» sbottò il signor Giacinto, «tutto questo non ha senso.»
Non si dovrebbe toccare nulla su una scena del crimine, tuttavia il richiamo del mio corpo, in mezzo al nulla, fu irresistibile.
Tese una mano e mi tolse le scarpe. Aprì una fibbia e poi un’altra; me le sfilò con cautela. Avevo i piedi sudati.
«Bella questa: anche i morti sudano» disse Giacinto.
Guardò dentro una scarpa, c’era un’etichetta: diceva “Strike-a-Bowling”.
Grazie a me, il signor Giacinto risolse il primo caso della sua vita: un insospettabile autista di treni che collabora con la polizia nella risoluzione del mio omicidio. Dopo il suo tempestivo ritrovamento, incastrarono, nel giro di poche ore, il proprietario del Bowling che mi aveva aperta in due.
Ne parlarono tutti i giornali locali per settimane, definendolo “l’uomo del momento” e, addirittura, “l’autista detective”. Dissero che era uno dalla grande tempra morale, di istinto forte e saldo – qualità necessarie, d’altra parte, per un autista.
Sarò sempre grata al signor Giacinto e alla sua passione per i gialli. Un po’ meno per il fatto che, prima di chiamare la polizia, mi ha svuotato il portafogli dall’incasso che avevo rubato dalla sala da Bowling.
Maria Teresa Renzi-Sepe
Mi chiamo Maria Teresa, ma tutti mi chiamano Esa. Ho 32 anni e sono nata nella provincia di Latina, ma vivo in Germania. Passo la vita a cercare luoghi a cui appartenere, per poi ricordarmi che sono i non-luoghi ad appartenermi. A volte provo piú nostalgia per il centro commerciale del mio paese in cui c’erano le sale giochi, o la stazione dove passa l’unico treno che va in città, che per casa mia. Ne “Il giorno in cui sono morta”, ho voluto riappropriarmi di questi non-luoghi in maniera ironica e surreale.