di Stefania Grosso

Il pavimento del bagno era scivoloso e freddo, ma non importava. Si sedette lo stesso per terra, guardando le pareti troppo rosse per i suoi gusti. E quella musica di sottofondo. A chi era saltato in mente di diffondere della musica jazz in un bagno di un aeroporto? Era una scelta bizzarra. Fuori dal bagno non c’era musica, solo gli annunci dei gate, dei ritardi, del richiamo passeggeri, ma niente musica. Remi si chiese perché il jazz. Non era un genere a lei affine, ma in quella sera lo trovava adatto. Fuori dal bagno c’era il silenzio della notte in un aeroporto di provincia. C’erano altri cinque passeggeri che aspettavano il volo, all’alba, dormendo in aeroporto. Li aveva contati. Tutti rannicchiati nelle scomode seggiole, avvolti in giubbotti e cappotti, in attesa dell’apertura del desk del volo, per sganciare i bagagli all’assistente e finalmente dirigersi all’imbarco. Probabilmente molti altri sarebbero arrivati poco prima dell’imbarco, trasportati da taxi o accompagnati da volenterosi amici e parenti. Ma per chi, come lei, veniva da lontano, l’unico modo per prendere quel dannato volo alle 5.50 del mattino era passare la notte in aeroporto.
Si era ritirata in bagno non perché dovesse davvero andarci, ma perché le sembrava il posto più isolato di tutti. E aveva scoperto che lo era davvero, con quelle pareti rosse e la musica jazz in sottofondo. Mentre se ne stava seduta per terra, la schiena appoggiata alla parete, pensò che aveva voglia di fumare una sigaretta. Fuori faceva troppo freddo però, non si sarebbe più scaldata le mani. E poteva aspettare, sì, poteva aspettare di arrivare a destinazione. Perché Martin avesse scelto proprio quella città non le era ancora chiaro. Forse aveva scelto a caso? Puntato il dito sulla mappa? Scelto il volo più economico di tutti in quel giorno di un anno prima?
Fatto sta che ora lei era lì, seduta per terra, ad aspettare il volo delle 5.50 per andare a recuperare i pochi averi rimasti di suo fratello. Una volta aveva ascoltato una canzone di uno dei gruppi che piacevano tanto a lui, si chiamava I Wanna Die in Los Angeles. Chi cantava sembrava così convinto di volere morire proprio a Los Angeles. Chissà che band era poi… e chissà perché suo fratello aveva deciso di morire proprio in quella cazzo di città sconosciuta dove c’era solo freddo, grigio e un volo alle 5.50 di mattina.
Stava pensando a suo fratello e a quella stupida canzone quando la porta del bagno si spalancò all’improvviso. La figura snella che entrò si piazzò prima davanti a lei, scrutandola, per poi girarsi verso il lavandino e guardarsi allo specchio mentre si lavava le mani.
– E tu che ci fai qui?
Non sembrava più di tanto sorpresa, in fondo, doveva aspettarselo che non l’avrebbe mai lasciata sola in quel momento.
– Sorpresa!
Glielo disse con un sorriso sbilenco, come sempre, non sapeva se la prendesse in giro o se invece fosse dannatamente tutto vero.
– Che poi, non tanto sorpresa vero? Non potevo non venire, sapendoti… beh, sapendo come stai.
– Già… hai sempre avuto questa capacità di…
Si guardarono. Non sapeva come continuare la frase in realtà.
– Di apparire quando ne hai più bisogno?
– Non so se era proprio quello che volevo dire, ma… sì. Sì, quando ne ho bisogno.
Aveva sempre invidiato quel corpo snello, i capelli neri che ricadevano morbidi sulla fronte, al contrario dei suoi, sempre arricciati, sempre arrabbiati.
– Secondo te perché
– Perché ha deciso di ammazzarsi in quel buco di appartamento?
Sussultò.
– Potresti usare un’altra parola?
Anche se teneva gli occhi chiusi percepì il corpo avvicinarsi al suo, il profumo alle rose che l’avvolgeva, le mani che si posavano sulle sue ginocchia, fredde.
– Usare un’altra parola non cambia le cose, Remi. un morto è un morto.
– Tu non sei nemmeno reale, non sai cos’è…
– Non so cos’è la morte? Lo so più di tutti, e sono reale quanto lo sei tu.
Sentì le mani spostarsi, il corpo allontanarsi. Riaprì gli occhi. Remi si era chiesta così tante volte se in fondo non fosse semplicemente pazza. La stessa follia che aveva portato Martin a quel gesto. Avevano tutto di diverso. L’aspetto prima di tutto; quante volte si era soffermata sui capelli scuri di lui, e gli occhi profondi, al contrario dei suoi così insulsi. E il carattere. Remi, sempre pronta a scattare in una nuova avventura, impossibilitata a stare ferma, una forza in costante tensione. Lui incanalava l’energia in modo diverso, all’interno di sé. Ed è stato quello a distruggerlo. Era quella forza che non capiva, che lo macinava da dentro.
Rimasero in silenzio, lei ancora seduta sul pavimento. La figura in piedi, invece, si guardava allo specchio. La prima volta che Remi l’aveva vista era stato dopo che era morto Mimi, il suo primo gattino. Era seduta in riva al canale che passava dietro casa, piangeva. All’improvviso – non se n’era nemmeno accorta – c’era una figura seduta accanto a lei. Ma incredibilmente non aveva paura. Non sapeva nemmeno dire se era un ragazzo o una ragazza, sembrava quasi da un altro mondo. I capelli neri e corti che però ricadevano morbidi sulla sua fronte liscia. Una cosa che nonostante il passare degli anni, Remi avrebbe continuato ad ammirare. Le chiese solo il nome, Morrigan. Che nome strano, pensò quel giorno. Dopo tanti anni pensa che non sia nemmeno il suo vero nome, non sia l’unico nome. La seconda volta che si incontrarono fu l’anno dopo, quando i suoi genitori avevano comunicato a lei e a Martin che avrebbero divorziato. Seduta sempre sulla riva del canale, si accorse presto della figura accanto a lei. Sembrava cresciuta nello stesso identico modo in cui era cresciuta lei. Anche quella volta si scambiarono solo poche parole, ma Remi sentì di potersi affidare a quel sorriso storto. Fu dopo quella volta che decise di parlarne con Martin, ma lui la guardò ridendo e senza dire una parola scosse la testa. Non le credeva ovviamente. Forse paragonava Morrigan al suo amico immaginario di quando era piccolo, come si chiamava, Woodstock, come l’uccellino di Snoopy. Ma per Remi non era la stessa cosa, lo sentiva.
Comunque fosse, chiunque fosse, Morrigan era sempre tornata da lei, nei momenti più scuri. Scuri come i vestiti che portava sempre, portava anche in quel momento mentre continuava a specchiarsi in quel cazzo di bagno dell’aeroporto, mentre la musica jazz continuava a diffondersi tra loro, dentro di loro. Remi si domandò se fosse possibile innamorarsi di qualcuno che non esiste. Si chiese se anche suo fratello, lontano da lì, si fosse mai innamorato. Se fosse stato quello il motivo. Se anche lui si fosse sentito sospeso in un posto che non esisteva, come una persona che non esisteva davvero.
– Remi, lo sai che le cose non cambiano anche se…
– Vorrei solo capire.
– E poi?
Morrigan la guardò con quei suoi occhi neri. E poi niente, pensò Remi. Poi niente, non cambia, è vero. Lui penzola dal soffitto della sua camera in quella città grigia dove aveva deciso di ritirarsi. Non cambia sapere, non cambia il modo, la morte, il luogo.
Si sedette finalmente accanto a lei. Il pavimento ancora freddo, ma non sembrava importarle.
– Non mi è mai piaciuto il jazz.
Remi sorrise. No, nemmeno a lei era mai piaciuto il jazz. Non lo capiva. A Martin sì, a Martin piaceva quell’accozzaglia di suoni e i costanti cambi di ritmo. Quante domande voleva fargli. Quante ne aveva sempre fatte. E ora stava in silenzio, ad ascoltare il respiro accanto al suo, che sembrava quasi andare a ritmo di musica. Chissà se anche Morrigan l’altra se ne rendeva conto. Le guardò il corvo tatuato sulla mano, a Remi era sempre piaciuto tanto; si chiedeva se potesse farne uno anche lei. Marchiarsi la pelle. Era un simbolo? Avrebbe dato un significato al suo corpo? E quale? Si chiedeva se c’era un significato per lei o se in fondo doveva rimanere solo l’eterna ragazza sospesa.
Remi guardò l’ora, 4.15. Tra poco si sarebbe alzata per andare a controllare il gate. Sapeva che la figura accanto a lei non l’avrebbe seguita. Eppure quell’ora in silenzio era come se avesse calmato il suo cuore, come se Morrigan avesse assorbito tutto ciò che di oscuro c’è. O forse si era solo addormentata, forse era solo stata la musica. Forse è solo così che deve andare. Forse le cose si accettano e basta. Era la cosa che Martin non era mai riuscito a fare, accettare se stesso, il divorzio dei loro genitori, la sua fragilità.
– Devo andare.
– Lo so.
– Ci rivedremo ancora?
Di nuovo, quegli occhi neri piantati nei suoi. Un sorriso sbilenco. Con la voce più calda che Remi le avesse mai sentito, Morrigan le sussurrò,
– Vai ora, non perdere tempo.
Uscendo dal bagno, Remi guardò il numero del gate apparire sullo schermo. In qualche modo sentiva ancora quel jazz ronzarle nelle orecchie. E gli occhi neri fissarle la schiena, ma quando si girava a guardare non c’era nessuno. Ovviamente. Si mise in coda paziente, aspettando il suo turno per salire. Qualunque cosa l’aspettasse in quella grigia città ora Remi si sentiva un po’ più piena, un po’ meno sospesa, come se qualche corda si fosse sciolta dentro di lei, come se qualche colore avesse iniziato a fluire dentro di lei.
Un paio d’anni dopo era nello stesso aeroporto, nello stesso bagno a lavarsi le mani. Le piastrelle rosse c’erano ancora, la musica jazz no. Non si sedette per terra, anche se aveva l’impressione che il pavimento fosse comunque viscido e freddo. Si guardò allo specchio. Aveva fatto pace con i suoi capelli. Aveva fatto pace con l’irrequietezza, con la sua incapacità di essere immobile. Ora sapeva stare ferma. Per un istante solo le sembrò di sentire quella voce calda, non perdere tempo. Si sciacquò le mani dal sapone, sfiorando il corvo tatuato sul polso, quella piccola m chiusa nel becco. Non era più la ragazza sospesa.

Stefania Grosso
Ha pubblicato due libri, nel 2011 Gigli Bianchi a Colazione, e Redemption Songs nel 2013 per Bibliotheka Edizioni. Nel 2025 è uscita la raccolta di poesie Frammenti, rottami e altre schegge per Versi Edizioni. Attualmente scrive di musica su varie webzine e di letteratura e cultura su The Bookish Explorer.