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Lynchiano, ovvero quando l’inconscio gira in pellicola

di Gino Ciaglia

A quasi cinquant’anni da Eraserhead (1977), il termine “lynchiano” continua a evocare qualcosa di sfuggente, viscerale, perturbante. Non un genere, non un’estetica precisa, ma un’atmosfera: quella sensazione indefinita che si insinua tra un dialogo sospeso e un’inquadratura fuori asse, tra un urlo silenzioso e una tenda rossa che si muove senza vento.
    “Lynchiano” è l’inconscio che prende corpo, con tutta la sua logica onirica e i suoi cortocircuiti emotivi.

Eraserhead, dir. David Lynch (USA, 1977).
Eraserhead, dir. David Lynch (USA, 1977).

    David Lynch ha costruito un linguaggio cinematografico che non spiega, ma suggerisce; non descrive, ma evoca. Il suo cinema rifiuta la struttura narrativa tradizionale in favore di trame frantumate, personaggi doppi o scomposti, dialoghi che paiono eco di altri mondi. Il tutto accompagnato da un sound design che, più che colonna sonora, è vera e propria minaccia sonora. Ma cosa significa oggi, nel 2025, parlare di qualcosa come “lynchiano”?
   In una cultura audiovisiva satura di contenuti iper-narrativi e algoritmi ottimizzati per la chiarezza, Lynch resta un’anomalia resistente. Il suo cinema è tutto fuorché chiaro. È cinema che richiede tempo, partecipazione, e soprattutto una certa disponibilità a non capire tutto subito, o affatto. Eppure, è proprio in questa opacità che si annida il suo potere suggestivo.
    Lynch ha influenzato un’intera generazione di registi e autori. Si pensi a Under the Silver Lake (2018) di David Robert Mitchell, dove la trama si dissolve in una rete di simboli e paranoia. O a The OA (2016-2019) di Brit Marling e Zal Batmanglij, serie Netflix sospesa tra misticismo e trauma, visione e allucinazione. Più recentemente, opere come I’m Thinking of Ending Things (2020) di Charlie Kaufman o Neon Genesis Evangelion: The End of Evangelion (1997) di Hideaki Anno nella sua rinnovata ricezione post-streaming, presentano una sensibilità fortemente “lynchiana” nel modo in cui trattano il tempo, la memoria, la moltiplicazione delle identità.

    Interessante è anche il modo in cui l’aggettivo “lynchiano” si è sganciato dalla presenza fisica del regista. Esistono ormai opere “lynchiane” in senso lato, che con Lynch non condividono né la regia né il contesto, ma ne ricalcano l’approccio: il rifiuto della spiegazione, l’uso del sonoro come elemento dissonante, l’estetica del sogno come metodo narrativo. 
    Si pensi, per esempio, a Atlantis (2019) di Valentyn Vasyanovych, un film post-apocalittico ucraino dove il vuoto e l’attesa diventano linguaggio. Oppure a Annihilation (2018) di Alex Garland, che costruisce un’allucinazione collettiva tra body horror e crisi d’identità.
    Film che lavorano come sogni: ti rimangono dentro senza un perché preciso.

Annihilation, dir. Alex Garland (USA, 2018)
Annihilation, dir. Alex Garland (USA, 2018)

    Se oggi parliamo di Lynch non è (solo) per i suoi film, ma per la qualità percettiva che ha saputo innescare. Guardare un’opera lynchiana significa accettare l’ipotesi che la realtà sia porosa, che la logica non spieghi tutto, che l’inconscio sia un protagonista attivo e visibile. E in un’epoca in cui il cinema sembra spesso ridotto a macchina narrativa lineare, la persistenza del lynchiano è una forma di resistenza artistica. Una sfida allo spettatore, una scommessa sul potere evocativo del non detto.
    Questa call “Lynch e derivati” è l’occasione per tornare a questa inquietudine fertile, e riscoprire quanto ci manchi, nel panorama contemporaneo, il coraggio di non spiegare tutto.

Bibliografia

  1. Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante (1919), dove si teorizza il senso di familiarità inquietante che si prova di fronte all’ignoto riconoscibile. Lynch ne è il maestro indiretto.
  2. Per un’analisi del suono lynchiano, si veda Michel Chion, David Lynch: la musique du silence, Cahiers du cinéma, 1995.
  3. Cfr. Slavoj Žižek, The Art of the Ridiculous Sublime: On David Lynch’s Lost Highway, Seattle: University of Washington Press, 2000.
  4. Una mappa dei riferimenti visivi e narrativi lynchiani in opere contemporanee è tracciabile nel documentario Room 237 (Rodney Ascher, 2012), pur centrato su Kubrick.

Piacere, Gino Ciaglia
Quando non entro in posta chiedendo a gran voce se è uscito il 42, o non sono impegnato a scacciare i piccioni dal busto di Carlo Levi, passo le giornate scrivendo su Google Keep e giocando a rimpiattino con l’ego. Qualche volta, vinco.