di Emanuele Di Carlo

«Mamma…Ma! Mammaaa! Mammaaaaa! MAAAAAAAAA!» la voce di Angelica passa dalla dolce età, “angelica” per l’appunto, raggiungendo in pochi attimi la pubertà, l’adolescenza, quindi l’età adulta: l’ultimo “Ma” con la stessa voce di una signora di sessant’anni dipendente dalla nicotina da almeno trent’anni.
«Eh…», Teresa aveva sentito l’urlare decrepito della figlia svariate volte, cercando di far finta di niente mentre osserva quella scarrellata di pareo colorati che continuano a sfilare davanti a lei. Angelica ha undici anni ma la grazia di un trattorino tosaerba Spid Tornando 342 P. “Avrà preso dal padre…” pensa la madre anche stavolta, l’ennesima disgrazia che ha preso da quel suddetto minchione di suo marito.
«MAAAAAAAA!!» Angelica non si ferma.
«Dimmi, amore» l’accarezza dolcemente Teresa, con tutto l’affetto e la pietà del mondo.
«Ma, lo sai che non mangio i peperoni! Perché so’ tutti con i peperoni, porco…» la bimba, in questa caldissima giornata di agosto (il 16 mi pare), si appresta a bestemmiare per la quarta volta. Anche questo l’ha preso dal padre.
Sotto l’ombrellone, Teresa riesce a interrompere l’inutile e volgare imprecazione della figlia. «Amore quello con la stagnola è il tuo…»
«Tonno e cipolla?!»
«Sì, tonno e cipolla, amore…» Teresa è stressata anche se è in vacanza, anche se ha trentanove anni e si dovrebbe godere le sue ferie. È stressata, ma non perché dovrebbe stare più tranquilla (come dice la madre), non perché pensa alle cazzate (come dice quell’inetto di suo marito) o perché è cattiva (come dice quando si arrabbia quella stronza della figlia). No, Teresa è stressata perché qualsiasi persona presente al Lido La Foce di Francavilla ha deciso di infastidirla come le zanzare la notte, di parlarle come uno sbirro a un posto di blocco o, meglio ancora, di trattarla come uno zerbino di una crack house a Fidene. E adesso Teresa si gira cercando di ritrovare quell’arcobaleno di pareo: non c’è più, si è dissolto come un miraggio tra il sole e la salsedine.
Teresa a volte vorrebbe piangere, a volte invece vorrebbe che il suo sorriso si trasformasse in una grossa e profonda risata che assumesse poi dei tratti distorti, come se dolori e lacerazioni di altre donne riuscissero a connettersi con la sua sofferenza, una mega interferenza radiofonica che assume le caratteristiche linguistiche della grande Torre di Babele e che urla nelle radio, nelle televisioni, fino ad arrivare alle dirette Twitch: “Adesso basta. Basta!”. Ma Teresa, purtroppo, non cede. E intanto in lontananza il marito esce dall’acqua con i suoi occhialini tirati all’insù, le sue spalle bruciacchiate e tre ore di nuotata nel corpo e nello spirito. Probabilmente assomiglia a un Nettuno qualsiasi: panzone, volgare, machista e maschilista. Siamo noi che l’abbiamo idealizzato troppo.
«Terè, panino» fine, direi anche punto. Queste sono le parole che tale Mario (credo si chiami così) pronuncia alla nostra Teresa che, senza batter ciglio o risposta, porge l’unta e lattosa ciabatta al marito. Ora però, mentre Angelica, saziata dal tonno e dalla cipolla, sembra finalmente voler andarsene a fanculo tra le braccia di Morfeo e Mario addenta peperoni e tracanna acqua Lete ghiacciata come il fiume da cui proviene, Teresa vorrebbe riuscire in un sogno da realismo magico: una nuotata nell’azzurro Adriatico. Eh già, perché è da stamattina che la donna entra, bagna le caviglie e poi riesce, richiamata dall’urlo di una figlia, dal tuono di un marito o dal vociare di una vecchia vicina d’ombrellone o di una figlia di una vecchia vicina d’ombrellone. Ora Teresa vorrebbe immergersi tutta, perché vuole vedere il suo corpo diventare liquido, poi resistere all’acqua, fino a trovare quel tacito e fisico accordo che rende il bagno a mare un toccasana per la mente e per lo spirito. Vorrebbe nuotare a stile, a dorso e a rana per poi confondersi negli stili e rinascere ombrina, sarago o spigola, non fa differenza purché, per almeno un paio d’orette, si trasformi in pesce.
«Posso andare a farmi il bagno, ci resti tu con Angelica?» Teresa chiede al marito, ma le sembra di parlare più con l’ultimo boccone del panino.
Mario scuote il capo, ormai quasi calvo, con quel suo collo taurino che mantiene e pavoneggia con camicette coreane. «No…» ciancica il tale «…devo andare a gioca’ co’ Carlo e co’ Carlo, poi ce raggiunge pure Carlo…» probabilmente sono la stessa persona in salsa diversa, o forse no.
Teresa resta in silenzio. «Però io non mi so’ ancora fatta il bagno da quando siamo arrivati…»
«Esticazzi» replica impeccabile Mario finendo anche gli ultimi atomi di anidride carbonica presenti nella bottiglia. «Che te l’ho detto io» frase tipica del tale.
«Ma…» però Teresa non si fa sentire questa volta, sente che la sua voce non ha importanza, allora guarda il marito alzarsi e andare con fare orchesco presso il chiosco del Lido La Foce, lì dove aspetterà con Carlo e Carlo l’arrivo di Carlo.
Teresa guarda adesso il mare, e continua a guardare, perché è da tutta la mattinata che guarda ciò che amava andarsene via: l’arcobaleno di pareo, il Mario (che vi giuro dieci anni fa Mario non era, era tipo Edoardo) e per ultimo l’Adriatico che sembra diventare un deserto se non ti ci puoi tuffare. Anche ora vorrebbe lacrimare, mentre raccatta le parole crociate e Angelica, intanto, si sveglia (la si sente dai Tik Tok scrollati su un Oppo ultimo modello). Fortunatamente però (perché il fato esiste se ci credete) succede un qualcosa di magico: la venuta in spiaggia degli animatori del villaggio La Foce (già perché oltre ad essere un lido, La Foce è anche un villaggio, un campeggio, una pizzeria-braceria-bar-ristorante, un disco pub e anche il piccolo estuario di un torrente che puzza di fegati putrefatti). Insieme, Andrèe e Palo Alto (così si fanno chiamare) si portano uno stuolo di bimbi e di bimbe pronti a giocare, tuffarsi e chissà magari correre fino a sparire, fino a diventare una puntata di un podcast di Nazzi. Angelica li segue con gli occhi. Anche Teresa li osserva e intanto guarda la figlia nella disperata attesa che questa dica «Ma’…io vado a gioca’…se rivedemo dopo…» e lei possa dirle «Certo, ma stai attenta brutta stronza».
«Allora che sfai? Sfei dei nofstri?» domanda euforico Palo Alto ad Angelica, fingendo la zeppola, dice che gli serve a darsi un tono nel mondo dei villaggi turistici.
Angelica osserva il telefono per chiedergli il permesso. L’algoritmo la guarda e annuisce, «Vai piccola, ci vediamo dopo». La ragazzina corre, con le preoccupazioni di Teresa che cadono in una buca profonda, profondissima.
La madre adesso è sola. Mario è lì con i Carli. Angelica è ancora più lontana con quei due aspiranti pedofili. La donna si spalma la crema, poi si gira verso la vecchia vicina d’ombrellone: è morta, si sveglierà alle sette di sera. Teresa sorride, per la prima volta. Si guarda attorno: il Lido La Foce è gremito di urla, super santos, luke sciolti, sigarette amarissime accese sotto all’ombrellone, tatuaggi osceni, palestrati altrettanto osceni. Una rete da pallavolo, lontana dalla spiaggia, permette a degli incoscienti di giocare a beach volley. Le urla e i colpi della palla vanno a tempo con una giovane coppia che gioca a racchettoni sul bagnasciuga. Toc-toc; tap-tap; toc-toc…e così via. Teresa per la prima volta agguanta gli occhialini neri, convinta. Vede questo mondo consumistico e balneare continuare a riempirsi di gente, una quantità sorprendente di teste di cazzo. Si alza, si sistema il costume nero lucente, tutto d’un pezzo. Si leva anche la bacchetta dai capelli, che cadono giù, sulle spalle. Neri anch’essi e gonfi per via dell’aria di mare, ma lei ce li ha sempre avuti così. Mentre si dirige verso l’Adriatico vede rispettivamente: quattro o cinque settantenni guardarle il culo da dietro Gazzette o Corrieri; il cocco bello cocco fresco che arriva col carretto come un protagonista di Mad Max; i bambini fare le buche per seppellirsi all’interno; una signora che litiga con un border collie perché quello non è uno stabilimento per cani; il border collie replica dicendo che lui ha pagato lettino e ombrellone, quindi non capisce perché dovrebbe andarsene.
Alla fine Teresa, mentre l’acqua le bagna le caviglie, osserva quello stralcio di spiaggia libera lasciata tra lo stabilimento La Foce e il Lido Sirenetta: che falsa illusione di libertà, come il Partito Democratico, come tutta la sinistra parlamentare. Si mette gli occhialini, si scorda di chi era e da dove viene, ma non si tuffa ancora. L’Adriatico ti impone sempre un’ultima prova quando ti devi fare il bagno: la lunga traversata a piedi per guadagnare il largo. Sembra quasi che ti voglia chiedere «Ma tu il bagno te lo vuoi fare davvero? Sei sicura che non vuoi giocare a schiaccia sette oppure ippopotamare a riva rischiando di ingurgitare qualche cacca di infante o trovare qualche vecchio morto che galleggia?». Teresa però è più sicura che mai, continua l’escursione mentre l’acqua via via e, molto lentamente, le ricopre il corpo. Non si guarda mai indietro, a un tratto supera gli scoglioni che deviano le mareggiate: finalmente solo le punte toccano. L’acqua è diventata di un blu confortante, soprattutto fresco. La donna si immerge nell’Adriatico, tutta, per intero: è la prima volta che succede da quando è arrivata con la famiglia al lido La Foce, il 6 agosto.
Teresa nuota a stile, ma a volte si ferma e si immerge e scende giù, in profondità. Il fondale non regala l’originale fauna e flora ionica o tirrenica, ma resta comunque un fondale, un luogo in cui riconciliare se stessi. È sabbioso e a volte qualche piccola roccia emerge come una duna nel deserto. La natante muove le braccia a rana, ma si sente molto più simile a una tartaruga marina. Cioè, lei l’ha sempre chiamata “Caretta-caretta”, perché così le diceva zia Matilde quando andavano in Calabria l’estate. Una volta ne aveva vista anche una: stava a bordo di un Caronte che spostava anime turistizzate da Gioia Tauro a Messina. Fu suo padre a vederla per prima, a urlare come se avesse visto l’America e indicarla. Quasi nessuno però si girò con lo sguardo a cercarla, a parte gli occhi piccoli di Teresa, che corsero da un lato all’altro della nave per osservare l’animale. La tartaruga faticava, muovendo le zampe pinnate, le onde create dalla nave la rallentavano, però lei restava sotto la loro egida. Si vede che era a suo agio, che sapeva soprattutto dove si stava recando e quale fosse il suo desiderio. Ovviamente non è dato a noi saperlo, ma neanche Teresa in quel momento era interessata. A lei piaceva osservarla, da lontano, lasciandola indisturbata. Adesso la donna nuota come la “Caretta-caretta” e di fronte le si parano banchi di cefali che se ne vanno verso la riva, oppure gruppi di piccole acciughe, non ancora troppo grandi per prendere il largo, ma salvate dall’infausto destino di diventare nannate. I pesci più divertenti che Teresa vede quel giorno sono un piccolo rombo o sogliola che, cercando di fuggire dalla natante, finisce invece per seguirla e scappare, come se stessero giocando, anche se l’animale appare più terrorizzato che divertito. Infine, le triglie che brucano come agnelli e che con i loro baffi scandagliano la sabbia alla ricerca di cibo. Non c’è una ragione precisa per cui le triglie fanno sorridere Teresa così tanto, semplicemente il loro aspetto, il loro modo di fare.
La donna ovviamente nuota in lungo più che in largo, diciamo, vuole evitare il rischio di arrivare in Croazia, attraversando quella sorta di grande lago salato che separa Balcani e Appennini. E mentre continua la sua spedizione nautica, si accorge che non ci sono né squali, né barracuda, né pesci scorpione, forse solo qualche granchio blu. Arriveranno, perché arriveranno sicuramente, ma lei oggi non li ha visti o forse non ci ha fatto caso. A lei sono sempre piaciuti i pesci facili, quelli che non si nascondono o appaiono all’improvviso. Quelli che vengono considerati solo in qualche frittura di paranza e che la gente ricorda solo per il sapore che hanno, Teresa invece li guarda nuotare, come si comportano sott’acqua, nel loro ambiente.
Ora Teresa guarda da lontano la spiaggia. Le pupille, coperte dagli occhialini neri, ricordano uno sguardo coccodrillesco, immerso nella palude. Dietro di lei il sole le battezza la nuca, ma non sente l’incocciatura, anzi a tratti sente addirittura freddo, come se delle correnti gelide volessero portarla via. Ma lei resta lì, a osservare la spiaggia. Si è allontanata parecchio dal Lido La Foce, ormai è solo un puntino lontano ma, fortunatamente, la costa Adriatica le permette di confondersi, di non capire quanto sia effettivamente lontana: sui chilometri di spiaggia si ergono lunghe file di stabilimenti balneari tutti uguali, tutti inframmezzati da tratti di spiaggia libera altrettanto affollati e altrettanto privatizzati. Ogni lido è caratterizzato dalla presenza del suo locale che avrà sempre il solito nome come “Tropicana”, “Dal Pirata”, “Barracuda”, “Cozze e vongole”, “Bikini”. Ogni stabilimento ha il suo tipo di ombrellone, si accorge Teresa: ogni due o tre lidi si alternano per stile e per colore. Ombrelloni verdi, ombrelloni gialli, ombrelloni rohs in finta paglia, seguiti da ombrelloni a righe bianche e blu, per poi riprendere con i verdi, i gialli, i rohs ecc. ecc. Teresa li osserva immobile, non ci trova assolutamente nulla in quelle mete turistiche per tedeschi e olandesi, non capisce neanche che cosa ci trovino di bello i tedeschi e gli olandesi, ma se sono passati da Rimini e Riccione all’Abruzzo marittimo forse qualche dubbio sul gusto te lo devi far venire. Ma, al di là di questo, le sembra di essere un’astronauta che osserva la terra dallo spazio. Da lontano sembrano carini quei lidi, quei carretti di pareo colorati, di ciambelle o grattachecche. Poi le persone che si muovono a riva, che non vanno così a largo dove sta lei, che restano dietro le boe bianche e rosse, intimorite dal fischio di un bagnino o, più banalmente, dall’affogare. Eppure, quando ti avvicini alla costa e inizi a sentire le voci e gli schiamazzi sentirai le solite cose che si dicono dell’estate italiana, in quell’ultima traccia del boom economico che ci portiamo appresso dagli anni ‘50: gli stabilimenti balneari appunto.
«Ti accorgerai che quelle migliaia di desideri che popolano Francavilla, Rimini, Gallipoli, ma anche Sperlonga, la costa ionica o il ricco Argentario, sono sempre le solite stesse persone, le solite stesse famiglie che lottano chi per l’infelicità altrui chi per il ritrovamento della felicità propria. La vacanza come sospensione della frenesia del lavoro, la vacanza come competizione tra uomini, uomini che devono mostrare alle loro donne quanto sono stanchi, quanto sono più stanchi delle loro mogli, che adesso, però, oltre a viversi il sopruso di genere, lavorano anche più degli stessi maschi, guadagnando in alcuni casi anche di più dei rispettivi mariti. Allora quei signori vivono omosessualità nascoste in lunghissime partite a briscola nelle verande degli stabilimenti, lasciando alle mogli spicci e il rimpianto di credere che “non era così, prima mi amava”. Vogliamo parlare dei figli? Che farebbero di tutto pur di tornare a scuola oppure di restare in vacanza per tutta la vita. Perché non cercate di educarli facendogli fare un minimo il cazzo che vogliono? Perché le cresime, le quaresime e le tredicesime? E alla fine state qui a inquinare un mare facilmente inquinabile mentre lì, lontanissima, non fate caso all’ennesima petroliera che viene costruita in questo Adriatico, che trivella, che causa i terremoti per cui dopo piangete vittime e forme di parmigiano come se fossero la stessa cosa. O ancora peggio non guardate il barcone che un po’ più in là affonda, ma quelli li nascondete sotto al tappeto…»
Teresa alza lo sguardo e vede che a parlare è un piccolo gabbiano (un fratino in realtà) che svolazza sopra di lei. Se ne sta lì sopra a planare, incazzato nero. A volte sbatte le ali nervoso riprendendo quota, poi torna a surfare sulla brezza. In realtà il suo discorso è solo uno sfogo veloce che apparentemente lascia il tempo che trova, ma non è così, è molto di più. Alcuni direbbero che è la natura che si ribella, a me verrebbe da dire che è la natura che sobilla, che capisce che la gente va fatta ragionare prima di buttarla in pasto alla rivoluzione. Difatti Teresa adesso è la gente, importunata nella sua falsa quiete. La donna adesso è convinta di aver preso troppo sole. Non solo perché sta ascoltando un uccello, ma perché gli sta dando anche ragione. Allora capisce che è arrivato il momento di tornarsene a riva.
Teresa cammina verso il bagnasciuga, in realtà striscia a gattoni come un Tiktaalik roseae, il primo anfibio sulla faccia della terra. La donna si muove affondando le dita nella sabbia, intanto cerca di evitare le piccole ondine che le finiscono sulle labbra. Si tira su quando ormai anche le ginocchia affondano nella melma marittima; quindi, si alza ed esce dall’acquitrino per la prima volta. Intorno a lei il delirio balneare continua frenetico, ma ciò che più la spaventa è il delirio che l’aspetta al Lido La Foce: se è tardi dovrà litigare, se è presto dovrà rimpiangere. Non sa che ore sono e non sa leggere il movimento del sole. Teresa si stringe le gambe al petto e resta in silenzio, si osserva le punta dei piedi: su quelle punte dei piedi comincia una narrazione non più mia, ma di Teresa. Ci resta solo la speranza che i suoi dubbi stanchi portino a una clamorosa tromba marina, lì sulla costa adriatica abruzzese, ma, per quello che mi riguarda, così diventerebbe solo una questione di coincidenze.
Emanuele Di Carlo
Nato a Roma il 18/08/2000, attualmente è studente di magistrale a Roma3. Il mondo accademico gli sta, però, un po’ stretto e continua a scrivere e sbattere la testa contro il muro per lavorare un giorno come sceneggiatore. Ha preso parte alla scrittura dei seguenti cortometraggi: Autogrill (2022) diretto da Masha Umbro e presente sulla piattaforma FormeWebTV; Marco; Anna (2024) diretto da Romolo Gusmaroli; La Caffarella – L’ultimo parco di sinistra (2024) di Romolo Gusmaroli, vincitore dell’ultima edizione di Mosaico. Nel tempo libero legge, scrive, mangia pizza al taglio e popola il quartiere magico di San Lorenzo. Ha pubblicato qualche racconto in giro per il web. Nel 2023 gli è stata assegnata, con la tesi di triennale Genova 2001: il G8 nel racconto della televisione pubblica, la borsa di studio “Per non dimentiCarlo anno 2023-2024”, bando organizzato dal Comitato Piazza Carlo Giuliani. Odia la deriva autoritaria e fascista che ha preso sto pianeta e non è il solo.