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La lunga attesa di

di Sarah Manciocchi Robak

Un ramo legato con dei fili di cotone rosso, annodati col fiocco a un cavo di metallo, teso tra due pareti nella stanza. Alle pareti bucate dai chiodi, i tuoi oggetti sacri: pigne di cipresso, piume di ghiandaia azzurre, frammenti di rocce. Selce, granito, fillade. Una cartolina del Sacre Coeur di Parigi. Un adesivo di Shiva, traslucido. Un tuo dente del giudizio. Un peluche a orsetto. Un Cristo Pantocrator in argento, alto su tutto.  Un mostro sacro, tu, la tua parete. Uno specchio. Tu che dici «io» al riflesso.
    La sera come sempre accendi la candela rossa, come sempre ti inginocchi davanti ai tuoi altari personali e li guardi e ti ci riconosci e dici a voce bassa: «io sono». La prima bugia rimbomba nella stanza, urtando contro le pareti addobbate su cui si proietta tenue la tua ombra. La preghiera diffusa, quella che al creato intero – ma alla tua stanza prima di tutto – rivolgi, è di definirti. 
   
Poi è la mattina che tersa si rovescia e si rompe sull’asfalto, sulle vetrine e su ogni superficie riflettente su cui di continuo ti cerchi con lo sguardo. Vestita di bianco, senza gioielli né trucco, esci di casa e guidi fino all’ambulatorio. La sala d’aspetto ha il colore della nebbia quando non è abbastanza fitta da oscurare il cielo, lasciandone quindi filtrare l’azzurro.
   
Suono di porta che striscia: una ragazza con una pelliccia rossa entra. Pensi: “ È una fiamma”. Si siede davanti a te su una sedia. Ti concentri sul suo apparire, schiacciata contro la parete, sempre più a fondo nell’ovatta del silenzio: sembra sofferente, la ragazza. Si mangia le pellicine delle dita. Poi viene chiamata, alza lo sguardo, si alza. Ne entra un’altra – stavolta più anonima, più pallida – e anche lei si siede su una sedia. Pensi: “Mi somiglia”. Ne osservi ogni gesto e movimento: cerchi punti di contatto. Poi viene chiamata anche lei, anche lei si alza ed entra da una porta. Una voce la saluta dall’altra stanza: qualcuno c’è, di là, qualcuno la curerà. Saperlo ti basta.
   
Resti lì sola, osservi l’ambiente: le pareti pallide, le porte, le file di sedie di plastica. L’attesa che satura l’aria, donandole tutto il senso di cui necessita.
   
Ti alzi anche tu, dopo un’ora e mezza. Torni alla macchina.
   
La sera nella luce calda della tua stanza incroci le gambe, poggi il dorso delle mani sulle ginocchia. La prima verità la dici lasciando che gli occhi si ribaltino: «Credo in d’io, in d’io, in d’io». Tre volte perché fa eco, come in ogni caverna. Nel buio sotto agli occhi chiusi, i pensieri sorgono come bolle. Tu le lasci scoppiare in superficie. Nel tuo buio, nel buio degli spazi che contieni, i pensieri sono nuvole che passano. Tu le lasci passare: tu sei il cielo, sei la superficie. Ti sdrai sul letto e fissi il soffitto spoglio. Recuperi la sensazione che provi ogniqualvolta ti trovi dell’ambulatorio. Pensi all’attesa. Pensi a cosa proveresti senza tutte le tue cose sacre. Alla salvezza, alla libertà e alla pace.
   
Chiudi gli occhi due volte ed è solo nella culla del sogno che, infine, senti chiamare il tuo nome.

Sarah Manciocchi Robak è nata a Brescia nel 1999, si è laureata in Filologia Moderna. Ha scritto e disegnato su @altrecose, ha pubblicato alcuni racconti brevi su rivista. Le piacciono i lamponi, la montagna e le assonanze (non nell’ordine).