di Fabiola Moroni

Ero cresciuta con l’idea che l’America fosse un posto straordinario. Mi avevano detto che gli americani erano giganti e che lì tutto era grandioso. Tutti erano invincibili e nei supermercati vendevano taniche di latte anziché bottiglie. Nelle autostrade ci stavano infinite macchine e le persone potevano diventare quello che volevano. Io, se fossi andata in America, avrei potuto esprimere al massimo il mio potenziale, così sentivo.
Un lontano parente d’America, nipote di immigrati italiani parenti di mia nonna, venne un giorno in Italia, con la sua mole immensa. Era molto più alto di noi, aveva quattro Harley Davidson, almeno due montate da lui, indossava una tie dye t-shirt psichedelica, al ristorante mentre mangiava carne spagnola ordinò una Coca-Cola e si fece una puntura di insulina, era stato nella marina, sbandierava le sue discendenze italiane e ribattendo a mia sorella, che diceva di essere troppo bassa e mediocre per essere una modella, le disse “Puoi fare quello che vuoi, ma devi andare fino in fondo alle cose”. In realtà non so se disse queste due frasi nello stesso frangente. Beh, quest’uomo veniva da Atlanta, Georgia, e ci raccontò che lì c’era il museo della Coca-Cola. Così immaginai una specie di fabbrica di cioccolato della Coca-Cola, con fiotti di bevanda da mille pompe.
Passarono anni dalla visita di quel parente e all’America non ci pensai così spesso. Non sapevo i nomi di tutti gli stati e in alcuni stati in cui mi immaginavo il deserto scoprivo per caso, da qualche libro o film, che c’erano colline verdi. Rimaneva però che lì tutto fosse sterminato, immensi deserti e immense coltivazioni. Un giorno, mentre passeggiavo per una stradetta periferica di città, che si chiamava viale Sardegna, vidi una lattina di Coca-Cola accartocciata al margine della strada. Era particolarmente bella. Di Coca-Cola a me veniva voglia d’estate, coi primi caldi, e mentre camminavo era gennaio, era presto e la strada era chiusa. Però quella lattina mi fece venire voglia di bere una Coca-Cola e, come un miraggio nel deserto, proprio oltre quella lattina, nel buio della sera accecavano le insegne al neon che dicevano APERTO del Las Vegas Bar (aperto 24h). Mi ci diressi. Il bianco abbacinante del bancone era inaspettato e contrastava con le poche persone che lo popolavano, ma ordinai la mia Coca-Cola e tutto fu luminoso come una giornata in America. Fu in quel momento che presi la decisione. Così, cinque mesi più tardi, partii. Era forse un mese troppo caldo per l’America, ma non sapevo in quale America sarei andata. Avrei girato come mi andava, bevendo Coca-Cola . Non lo sapevo prima, ma quando presi quella decisione capii che era una decisione che aspettavo da una vita. L’avevo troppo pensata, l’America, avevo visto troppi film in cui pure i distributori di benzina hanno una storia, sentito troppe cose , per non pensare che, in fondo in fondo, lì mi sarei sentita libera. Li avevo visti io, i margini blu e rossi delle buste da lettera. Mi ero immaginata vite alla sprovvista, e una vita così desideravo io, finalmente a esondare le corsie di una vita canonica. Mi aspettavo che questo atto di ribellione fosse quello che veramente funzionasse in America, prendere coraggio e crescere, andare avanti comunque le cose andassero, senza troppe aspettative. Solo diventando libera di non essere nessuno sarei potuta diventare qualcuno per come era giusto che fossi. In America sarei stata come un seme e nessun terreno sarebbe stato arido, nessun luogo dove capitassi mi avrebbe fatto seccare. Ovunque tutto possibile, così come doveva essere, così come sarebbe capitato. In qualsiasi momento, a qualsiasi età, l’America ti avrebbe fatto essere chi dovevi diventare. Così m’imbarcai su un aereo, come molti fecero prima di me, e per lunghe ore fluttuai nell’aria dove nessuna terra è contesa. La vita da lassù diventava evanescente e tutte le fatiche sembravano ridicole, tutte le preoccupazioni. Il 7 giugno toccai il suolo americano e quasi fu incredibile mettere un piede sulla terra: allora esisteva, allora non era un sogno, un’idea, una trovata pubblicitaria. Colombo sbagliando non si era sbagliato. Però, lo capii subito, o meglio, per un po’ l’America durò, ma capii presto che anche se avevo messo piede a terra, l’America non esisteva del tutto. Quando scesi, non trovai persone giganti. Erano persone con case grandi, sì, ma anche le loro case avevano a volte gli intonaci scrostati. Io lo so, però, che nemmeno quello mi avrebbe fatto scrollare di dosso i miei immaginari. Eppure, già in aeroporto ebbi il primo indizio, quando vidi gli uomini dalle giacchette fluo che si aggiravano per le zone d’ombra fra le piste e l’edificio aeroportuale. Questi uomini avevano un’aria simile a quelli che avevo lasciato a Milano, sembrava avessero le stesse movenze, le stesse facce, come se appartenessero a una stessa specie. Lo notai subito. Questi uomini non erano dei giganti, no, non risplendevano in ogni gesto, definito, indispensabile e assoluto. Non avevano corpi energici ed esemplari, né movimenti perfetti. Questi uomini qui erano uomini piuttosto normali. Lo vidi subito, ma non subito lo realizzai. Così l’America esistette ancora per un po’. A volte qualche scoperta pareva darmi conferma della sua esistenza, come i cinque diversi formati di burro incontrati al supermercato, come l’ampiezza delle strade e i grattacieli persi nei cieli e le mille luci dietro ai vetri che hanno dentro mille e mille persone. Eppure, non durò molto a lungo. Finii infatti in una stradetta marginale, all’uscita da un parco un po’ sconcio, e lì lo vidi che l’asfalto era sgretolato più del dovuto, come nelle strade verso casa mia. Quello ancora non m’importava, eppure poi la vidi: vidi una lattina di coca cola accartocciata. Non era brutta, no, ma era così simile a quella incontrata in viale Sardegna, nella mia vecchia Italia, che lì lo capii e lo capii per davvero che l’America non esisteva. Fu un po’ doloroso. Vidi la terra per come era davvero, vidi la terra ostracizzata dalle coltivazioni, vidi la terra di ville e di roulotte accampate, di catapecchie di legna e grattacieli delle fiabe, vidi che i distributori di benzina erano brutti con gente brutta e bella. Un po’ di America c’era ma, d’un tratto, la vidi per come era, con la terra imbevuta di sangue e coca cola.
Fabiola Moroni
Fabiola, classe 1998, ha studiato Lettere moderne a Milano e Antropologia culturale a Venezia. Continua a pensare a cosa significhi un luogo e il tempo dentro a un luogo. I luoghi li vorrebbe studiare, disegnare, scrivere e filmare, ma quasi sempre rimangono dentro la sua testa, dove forse esistono davvero.