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Apologia del vuoto o di quanto siano superflue le liste della spesa

di Gaia Battaglia

Ci annoiamo, stese sul letto di camera mia. Io sono attorcigliata con le gambe al muro e la testa che pende. Bea mescola i tarocchi a cui non sappiamo più cosa chiedere. Riprendo in mano la canna lasciata a mezzo, inalo lentamente e il fumo smussa gli angoli dei mobili. È ancora pomeriggio, ma è buio da due ore o quasi un’eternità. Senti, dice Bea dopo due tiri, Ho una cena stasera e non ho preso niente, mi sa che vado. La guardo come se mi avesse appena dichiarato guerra. Dove devi andare, chiedo disperata, Ti accompagno. Tesoro, dice lei, Devo solo andare alla Coop, capirai che divertimento. Qualunque opzione è meglio del vuoto, Andiamo. Sei seria? chiede, preoccupata. Assolutamente, rispondo. Prima che possa cambiare idea, siamo davanti all’Iper Coop che troneggia tra Firenze e Sesto Fiorentino, in mezzo ai casermoni residenziali e alle pecore.
   
L’Iper Coop è un gigantesco complesso commerciale dentro cui è incastrato il supermercato Coop. Sulla soglia le macchine si arrampicano tra due parcheggi esterni e uno sotterraneo, dove le sgommate delle ruote rimangono impresse sul pavimento cerato. Separato dal resto come una sorta di dépendance c’è l’OBI, mentre alla magione padronale si può accedere in due modi: da un lato un nastro trasportatore che fa sbucare tra Euronics, Decathlon e un esotico stand di bagel; dall’altro lato, una volta superate tre serie di porte scorrevoli automatiche, si viene catapultati in un atrio spalancato dai muri candidi. Sul soffitto ampi pannelli trasparenti, da cui pendono degli scintillanti tubi al neon. Disposti a semicerchio ci sono i piccoli negozi delle grandi catene, che vendono videogame, bigiotteria, articoli per la casa stile IKEA, contratti telefonici più o meno convenienti.
    Varchiamo le porte e mi sento accolta dentro un confortevole sottomondo artificioso. La luce è onnipresente: dato che niente può essere nascosto, cioè tutto deve essere esibito, non esistono angoli di ombra in cui rifugiare gli occhi. Qui dentro non ci può raggiungere la sera, né la noia. Ogni vetrina contiene una promessa diversa e io in trance strascico già i piedi ma Bea mi trascina ostinata fino alla Coop. I tornelli automatici si schiudono, concedendoci questo Eden lussureggiante in cui possiamo trovare qualunque cosa di cui sentiamo il bisogno. Prima, sull’autobus, abbiamo stilato una lista delle nostre necessità primarie. Recita: due bottiglie di vino; un pacchetto di bic formato famiglia; una confezione di Pringles alla panna acida per placare la fame chimica, e poi, per sfizio, assolutamente desidero un pacchetto di albicocche secche.
    All’ingresso ci riceve una vivida selezione di piante in vaso, spumeggianti di fiori, il cui profumo è annullato dal brulichio umano che le ignora, che le tocca e le stropiccia. È una domenica pomeriggio autunnale e sembra che tutta la provincia di Firenze sia venuta qui a farsi tirare su il morale. Attorno ai sacchetti pieni di aria e di insalata girano giovani coppie, le mani strette ai carrelli come se fossero lance da torneo. Lì accanto, qualche coetaneo esplora la sezione degli hamburger vegetali, straccetti finti che sembrano di vero pollo dal costo al kilo paragonabile a quello dell’oro. Coppie più adulte vagliano accuratamente grandi barattoli di olive – verdi, nere, snocciolate, con noccioli, nude, in salamoia – pronte a essere gettate in una ciotola decorata in stile generico-orientale insieme a dei salatini.
    Il centro di quest’area è occupato dalla frutta e dalla verdura. Le persone volteggiano frenetiche attorno a cavoli di ogni dimensione, sgomitano per raggiungere il mazzo di bietole meno ammaccato, lanciano le proprie mani guantate di plastica verso quel singolo porro perfetto. Io mi piego davanti al sublime di tutte le cascate di arance brillanti e delle cassette che straripano di funghi. Lì a fianco le promesse estive, peperoni e zucchine e pomodori, composti di pura acqua e cocciniglia. Incastonate tra le noci e le arachidi, scoviamo le albicocche secche: sono sistemate preziosamente dentro un pacchetto dalle cornici dorate, adatto per un profumo lussuoso o forse per l’acqua santa. Primo obiettivo: conquistato. Adesso? Schivando la ressa ci rifugiamo vicino agli aromi, mente, origani, basilici, rosmarini, stretti nelle confezioni come acciughe. Sto frugando nelle tasche per cercare il cellulare, rovisto – il portafoglio non c’è. Cristo, il portafoglio non c’è. Mi rendo conto che, con queste condizioni, io qua non ho niente da fare: potrei andarmene e basta, ma dovrei comunque attraversare l’intero labirinto per arrivare all’unico tornello che mi permette di fuggire senza pagare il mio pegno, la mia commissione, la prova della mia soddisfazione. Evadere vestita da parassita, essere squadrata dai cassieri, dagli addetti alla sicurezza, dalle persone ancora fuori, senza neanche un trofeo. Con lo sguardo fisso a terra vedo le ruote dei carrelli, gonfi di meraviglie, correre sul pavimento. Il pacchetto di albicocche, inquinato dalla mia temporanea povertà, mi sta scivolando tra le mani, annegato nel sudore del mio panico. Bea, che non possiede una carta di credito, scava dentro il giubbotto dentro i pantaloni fino a che, con un acuto di sollievo, mi informa della scoperta miracolosa: ha recuperato 10 euro. Siamo in parte salve. Certo, sono solo 10 euro. Che cazzo ci prendiamo con 10 euro? Le nostre possibilità sono improvvisamente così limitate. Sarebbe stato quasi meglio non avere niente direttamente, dover accettare di essere solo un ingombro di spazio in quell’angolo dove le persone continuano a urtarci, cieche, prese dalla personale ascesa che le porterà dal buio della nullatenenza alle porte del paradiso: le casse.
    La conclusione è tragica quanto ineluttabile: dobbiamo abbandonare le albicocche. Sto odiando tutti, muoviamoci da qua, dice Bea turbata. Ci affianchiamo sconfortate al reparto gastronomia, cercando di capire cosa fare. Che stuzzichio di lingua i cannelloni e le patate arrosto, la vasca della burrata in cui affondare la faccia o farci una nuotata, la gola mi chiama, potrei infrangere con le dita gli schermi di vetro, far trapassare in me le besciamelle e i gratinati, dov’è Bea? L’ho persa nel turbinio multicolore dei giacconi, allora vago nel formicaio fino a che oltrepasso i prosciutti appesi, fino alla giostra delle carni. Le insegne esibiscono gioiose la provenienza dei cadaveri esposti: manzo, agnello e pecora, suino. Strippate dentro le loro vaschette di polistirolo, le salsicce mi assaltano: osservo straniata il sangue piovere lento dalle polpe dilaniate, infiltrarsi nella plastica. Sporgo la testa, mi strizza la pancia, il gomitolo del macinato è annodato con le mie viscere, non ho arti, sono dissezionata nella fila del macello. Nella pellicola dello stinco ornato di rosmarino si specchia di rimando la mia faccia, larga, grossa, il naso schiacciato, inizio a grufolare oppure urlo.
    Che fai qua, che schifo, vieni che ho trovato qualcosa che possiamo permetterci. Bea mi compare alle spalle, angelo redentore, e mi porta verso i frigoriferi, dove nel candido di tutti i latti la mia pelle si ricompone coerente. Mi illustra trionfante ciò che ha scelto: uno yogurt liquido gusto melograno e lampone, costo in euro 1,15. Certo non l’avevamo messo in conto, ma come rifiutare, sento già il gusto fresco sui denti mentre i formaggi mi guardano intoccabili, separati dallo sportello del frigo. Forse, se rimaniamo qua, ci immergeremo dentro mozzarelle e stracchini, ci cristallizzeremo in statue casearie per decorare il paesaggio perenne di questo regno di ghiaccio, allora svicoliamo in fretta verso il caldo, gli alcolici lì accanto. Gli scaffali di finto legno propongono etichette incomprensibili, ignoriamo vitigni e profumi, per noi solo vini a meno di 3 euro, vorrei economizzare di più ma ora che li comparo i numeri si stanno moltiplicando, diventano periodici, infiniti, li vedo appiccicati su ogni superficie. Persa tra le parentesi mi chiedo quale sia il prezzo al litro del mio sangue, quanto valore avrei, spremuta dentro a una bottiglia da 75 cl.
    Bea stringe in mano le bottiglie e mi precede a tentoni oltre i caffè e le tisane, fino alla COLAZIONE. Lei si china sui preparati per pancakes, io sommersa da tutti i dolci mi dimentico di quanto mi impiastriccino il palato, sento pulsare sulle labbra il sapore di zucchero, vorrei concedere ai miei denti piccoli morsi assaggi di tutto. Le mie mani fantasmi vogliono scartare distruggere i pacchetti – squarcio la plastica metto le mani su tutti i biscotti e le brioscine, i cereali che crollano dagli scaffali invadono il pavimento di fiocchi di riso e di cioccolata, le marmellate riempiono questo abisso, eruttano laghi di miele in cui fette biscottate navigano senza sosta, pronte solo a essere raccolte dalle mie dita tremanti. Invece è tutto in ordine: gli scaffali continuano a sottostare alla forza di gravità e Bea si sta lamentando che vuole le torte quelle vere, Dov’è la panetteria?, chiede. Non voglio trascinarla nella mia bufera allucinatoria placo la voce rispondo Non lo so ma mi rifiuto di muovermi senza meta, stringo gli occhi vorrei un binocolo per riuscire a possedere tutti i pannelli – esploratrici contro mari di merce, la panetteria, scopriamo, è all’entrata, non l’avevamo neanche vista quando siamo arrivate. Ci accingiamo a tornare indietro ma sulla soglia dei latticini realizziamo quanto lontano sia il pane, inavvicinabile, sarebbe stringersi dentro un altro assedio quindi il punto magari è che non possiamo più genericamente desiderare, dobbiamo sapere esattamente cosa vogliamo, dobbiamo trovare uno spazio in cui ispezionare la nostra lista, censirla, arrivare all’essenziale. Vaghiamo, gli scaffali franano spioventi a picco sopra la mia fronte. Guardo i carrelli gonfi che si divertono a fare l’autoscontro con le mie gambe, vasi di pomodori secchi e melanzane sottaceto che sembrano polpi, panne acide, panne da cucina, panne spumose, ora vomito, dov’è che non c’è nessuno, dov’è che possiamo trovare tregua, strisciamo in cerca di una zona franca fino a rintanarci in un angolo quieto tra caramelle e salsa di soia, abbozzo un respiro. Protette, apriamo il telefono, la nostra lista recita: due bottiglie di vino; albicocche secche; Pringles; le Bic. Le nostre mani dicono: due bottiglie di vino, uno yogurt da bere. Ci guardiamo dritto nelle pupille. Bea ha le guance di un pallore cadaverico, io sento gli occhi roventi, la gola secca, le orecchie che ronzano. Dobbiamo fuggire, con la spesa che ci resta. Le afferro le mani, sia mai che ci perdiamo di nuovo, davanti e a destra c’è l’uscita, la so, la vedo. Superiamo bibite gassate e stuzzichini, oltrepassiamo comitive alle prese con quaderni e righelli, signore che ponderano le pantofole, giusto un secondo attorno a orecchini e collanine mi pungono dentro la retina. Bea cammina solida è più resistente di me io non ero pronta a questa ricerca senza rischio dove tutto può essere reperito dove la scarsità non ha significato, voliamo verso le casse sul nastro scorrono branzini e carote e preservativi e rasoi e aranciate, noi ci presentiamo sconfitte costo totale 6,52 euro, siamo fuori dai tornelli, la folla si dirada, oltrepassiamo le tre file di porte, siamo fuori. Aria.
    È passata un’ora e quarantadue minuti da quando siamo entrate. Sbatto le palpebre e accolgo il buio. Sento le macchine sfrecciare e nessuna voce. Non mi ero resa conto che per tutta la nostra permanenza la musica si era annidata subdola nel retro delle mie orecchie. Bea apre lo yogurt e riesco a percepire il rumore del tappo svitato. Ci sediamo sul marciapiede oltre la strada. Nessuna delle due proferisce parola, respiriamo. Davanti a noi si staglia il fabbricato luccicante, ma già non riesco più a immaginare com’era starci dentro. Le voci, i carrelli, i colori, stanno sbiadendo, fanno parte di una memoria già obsoleta. Non pensavo che si potesse svanire così velocemente. Adesso, in questo vuoto, ho di nuovo peso.

Gaia Battaglia, fiorentina trasferita a Roma, studia comunicazione ma soprattutto cerca spazi fisici e digitali in cui affogare le proprie velleità, che riguardano principalmente le parole, le immagini, e tutte le loro combinazioni.