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Il Conteflabis

di Letizia Rigotto


Racconto semifinalista al
Premio Calvino Racconti 2024 a tema “Trame interspecie”.

Dipinto di Enrico De Cillia, paesaggio carsico, 1975.
Enrico De Cillia, Paesaggio carsico, 1975.

Si chiamava Conteflabis, cantastorie. O meglio, alcuni lo chiamavano Conteflabis, ma altri lo chiamavano Sglonfebufulis, contaballe. Per noi bambini era Conteflabis.
    Il Conteflabis era un vecchio con la barba lunga e annodata e le mani sporche e callose. Quando lo vedevamo, con le dita nere fin sotto le unghie, ci diceva che quelle non erano le mani di uno che se ne stava lì, cence far nuie, ma che erano le mani di un esploratore, di un archeolic.
Quando infatti non era al bar il Conteflabis si inerpicava su per le montagne intorno al paese, tutto curvo per il peso dei secchi, secchielli, corde e martelli che si portava appresso. Noi bambini, sparsi in mezzo ai boschi a raccogliere sassi e bastoni, sentivamo lo sbatacchiare di tutta quella roba e lo guardavamo, da lontano, calarsi svelto in un buco e intrufolarsi nelle profondità della terra.
    Il Conteflabis diceva infatti che nei dintorni del paese c’era il più grande complesso di grotte d’Europa, e che si poteva percorrere tutte le montagne senza mai vedere la luce, entrare in un luogo e uscire da un altro a centinaia di chilometri di distanza.
    Passavano ore, a volte giorni, prima che si rivedesse il Conteflabis, e quando rispuntava aveva sempre con sé pietre, minerali e tutto quello che era riuscito a trovare, tutto ammucchiato nei secchi e ricoperto di terra.
    Noi bambini, che passavamo le giornate d’estate a rotolarci e arrampicarci in quei boschi, eravamo sempre i primi a vederlo riemergere e i primi a cui mostrava cosa aveva raccolto.
    Con il fango incrostato fin sulle sopracciglia, ci mostrava quei reperti e ci diceva tutti i nomi, ma non ce li faceva mai toccare: quelle erano scuviertes, beni di gran valore, e noi bambini li avremmo fatti cadere e rotti. Il Conteflabis, invece, li doveva rivendere, e infatti lo si vedeva spesso prendere la via della valle col furgoncino carico di quegli oggetti preziosi.
    A volte ritornava la sera stessa con il cassone vuoto, altre volte passavano dei giorni e non riusciva a vendere tutto. Il Conteflabis aveva un negozio in città, e ci diceva che facevano la fila per comprare la sua merce, che venivano da tutto il mondo, perfino dall’America.
    Noi bambini non avevamo mai visto né il negozio né un americano, però già ci immaginavamo tutte le persone che facevano a gara per avere una delle scoperte del Conteflabis, mentre noi potevamo vederle per primi.
    Quello che dicevano gli adulti, che il Conteflabis non aveva nessun negozio, ma che portava tutta quella roba in discarica, ci sembrava impossibile: anche noi, sotto sotto, volevamo essere come il Conteflabis, così che non facevamo altro che scavare, spostare foglie e rami per trovare nuovi buchi e correre ad avvertirlo.
    Un giorno il Conteflabis stava giusto guardando un cunicolo appena scoperto: inginocchiato vicino alla stretta bocca d’ingresso che sprofondava nell’oscurità, sondava diligentemente il terreno e le rocce.
    L’obiettivo, ci spiegava, era capire se da lì passasse un corso d’acqua sotterraneo. Nella zona ce n’erano di molti, più o meno grandi, che si aprivano la loro via sottoterra, così che fiumi all’apparenza piccoli percorrevano in realtà molti chilometri. Questi, stringendosi come ruscelli o allargandosi come laghi, scavavano da migliaia di anni, creando stretti cunicoli e immense sale. In molte di queste grotte il fiume non c’era più, ma l’acqua continuava a colare lentamente, quasi invisibile, e a plasmare la roccia in punte e speroni, dal basso e dall’alto.
    Ammaliati da tutte quelle immagini che ci venivano dipinte davanti, ansiosi di poter mettere anche noi finalmente le mani su quel tesoro minerario che il Conteflabis custodiva gelosamente per sé, gli chiedemmo se potessimo andare insieme a lui.
    Il Conteflabis, giratosi di scatto, serio, ci fece promettere che mai ci saremmo infilati in uno di quei buchi. Il rischio di perdersi, di cadere o di farsi male non era cosa da prendere sottogamba. La maggior parte delle grotte non si sapeva nemmeno dove conducesse: alcune si arrestavano subito, dopo pochi metri, ma altre si diramavano e intrecciavano, si mescolavano fra di loro e si dividevano in una specie di labirinto inestricabile.
    Non erano pochi quelli che, scesi in una grotta, si erano persi non trovando più l’uscita. Anche al Conteflabis era successo una volta, ed era uscito solo per miracolo.
    Si era calato in un buco più su, che scendeva inclinato per almeno duecento metri. All’inizio stava andando tutto bene e la grotta, tranne che per alcuni strettissimi cunicoli, non sembrava nemmeno così complicata.
    Ai lunghissimi corridoi color caramello si alternavano larghissime sale. Il calcare, depositato sulle pareti e sulle volte, dava a tutto un aspetto marmoreo, così che sembrava di trovarsi in un antico palazzo, abbandonato e dimenticato lì sotto. Il pavimento, rosso di fango e di argilla, si inerpicava irregolare, formandosi in pozze e dislivelli, salite e discese.
    Infilatosi in un altro buco, il Conteflabis era strisciato silenzioso per un tempo che gli era parso interminabile. Il cunicolo, così stretto che il quarzo gli graffiava entrambe le spalle, non permetteva di tornare indietro. A volte nelle grotte è così. Si può solo andare avanti.
    Infilando le dita sottili fra i minerali taglienti, il Conteflabis era sgusciato fuori in un’altra sala, ugualmente grande. Qui, però, le incrostazioni calcaree non formavano alte colonne, ma larghi archi che, simili a quelli di una chiesa, percorrevano la stanza lungo tutte le pareti.
    Il Conteflabis, con la luce sopra la testa, contemplava l’opera, aliena e umana, ammirava l’allungarsi e il restringersi delle ombre al variare della luce, si perdeva nelle geometrie perfette e impossibili di quel luogo mai visto prima, eppure familiare.
    In un angolo, aggrappato all’estremità di uno degli archi, un pipistrello si contorceva, infastidito dalla luce. Il Conteflabis, con gli occhi fissi su quella macchia nera, aveva abbassato lentamente la luce: quando si scende sottoterra, ci diceva, l’autorità dell’uomo non vale più. Si è ospiti, quasi intrusi.
    Inginocchiatosi, il Conteflabis aveva tirato fuori dal secchio la sua spazzola e il suo martello, e si era messo diligentemente a pulire le stalagmiti che bucavano il pavimento e le colonne che s’appoggiavano alle pareti.
    Negli ultimi anni si raccontava che da quelle parti fossero stati scoperti interi giacimenti d’oro, che potevano arricchire a dismisura chiunque li avesse trovati. La notizia, falso creato ad arte per attirare turisti e per far crescere la fama della regione, aveva però dato al Conteflabis un’idea: se infatti di oro da quelle parti non c’era traccia, c’erano invece centinaia di sassi di varia natura, creati dall’agglomerarsi di ghiaiette e sabbie ferrose. Queste ghiaiette assumevano una colorazione varia, dal grigio al blu elettrico, ma nella maggior parte dei casi avevano un colore giallastro simile a quello dell’oro, e potevano essere facilmente confuse da un osservatore poco attento.
    L’intento del Conteflabis, dunque, era proprio quello di trovare questi agglomerati senza valore e rivenderli nel suo negozio a un prezzo esorbitante al primo sprovveduto.
    Il Conteflabis stava giusto spaccando le pietre per riversarle tutte nel secchio quando, dietro di lui, sentì un tonfo sordo come un colpo di tosse. Giratosi di scatto, il Conteflabis aveva visto, alla fine della sala, un grosso blocco di calcare infangato: formato da linee sia dritte che storte, plasmato in curve e ripieghi mitologici, l’ammasso bestiale e umano sembrava fissarlo immobile da due fessure scavate dall’acqua. Con gli occhi fissi su quella scultura indecifrabile, alla quale una serie di aguzze stalattiti conferiva un eterno sorriso, il Conteflabis aveva capito che era l’ora di andarsene. Sottoterra si teme e ci si augura di essere da soli.
    Radunate velocemente le sue cose, il Conteflabis aveva cominciato ad arrampicarsi per dove era venuto. Puntati i piedi e le mani per non scivolare sul fango, questi si era infilato nello stretto cunicolo ma, spuntato dall’altra parte, non aveva riconosciuto nulla: la sala gli sembrava mai vista prima, e i cunicoli che prima si aprivano verso il basso ora scomparivano, ora mutavano, ora riapparivano totalmente diversi da un’altra parte, così che ogni punto sembrava portarlo sia in basso che in alto, sia a destra che a sinistra.
    Il Conteflabis sapeva bene che, sottoterra, non era tanto il freddo o il buio, ma il silenzio. Ne aveva vista di gente, scendere giù e ritornare su con occhi folli e spaesati, stringendo i denti e tappandosi le orecchie: il cjâf al fâs bruts scherçs, la mente fa brutti scherzi.
    Camminando veloce, come sentendo sempre un qualcuno, un qualcosa, stargli dietro, strisciare e scivolare insieme a lui in quel labirinto, il Conteflabis aveva pregato per ore, chiunque potesse ascoltarlo: quell’uomo era cresciuto con le storie della valle e delle creature che l’abitavano, che se non erano del tutto vere, non potevano nemmeno essere del tutto false.
    Anche noi, come il Conteflabis, conoscevamo quelle storie: quella del tesoro introvabile del castello di Dierico, sempre protetto dai mostruosi Guriuts; quella del Fischiosauro, il cui ruggito, durante la notte, sembrava rimbombare e rimbalzare da una montagna all’altra; quella dei Krampus che, con corna altissime e intricate, ci sarebbero venuti a cercare se non fossimo stati buoni; quella dell’Orcolat che, rinchiuso nelle profondità della terra, dormiva di un sonno eterno e leggerissimo, pronto a causare terremoti e frane ogniqualvolta qualcuno osasse disturbarlo nel suo riposo.
    Il Conteflabis non ricordava come avesse trovato l’uscita: forse le sue preghiere erano state ascoltate, forse, senza saperlo, era riuscito a imboccare la giusta strada, fatto sta che, come era entrato, si ritrovò fuori colpito dalla pioggia e con un unico sasso che, non si sa come, si era infilato nella tasca dei suoi pantaloni.
    Quel sasso, ci diceva il Conteflabis, così misteriosamente entrato in suo possesso, se lo portava sempre dietro come portafortuna, ma senza mostrarlo a nessuno, che quello non era un sasso qualunque, ma un occhio di Ucelat, fossilizzato e rimasto là sotto per centinaia di anni.
    Fu dopo quel racconto che noi bambini sospettammo che le scoperte migliori il Conteflabis se le teneva per sé: al prossimo buco, ci dicemmo, non saremmo corsi da lui, ma ci si saremmo infilati noi.
    Davanti a un ingresso, non diverso dagli altri ingressi scuri e scivolosi che avevamo trovato, ci facemmo coraggio e, in un attimo, eravamo sottoterra.
    Le sale, gli archi, le volte, i cunicoli, le colonne, tutto era come ce lo aveva descritto il Conteflabis, così che, pieni di meraviglia, avevamo cominciato a grattare alla rinfusa tutte le pareti e ad ammassare ciò che cadeva nelle tasche. Anche noi, come il Conteflabis, volevamo avere le nostre scuviertes.
    Fu in quel momento che, in mezzo allo schioccare e scricchiolare della roccia, sembrò insinuarsi un sibilo secco simile a un serpente che ci fece impietrire le ginocchia.
    Immersi nel silenzio, guardandoci l’un l’altro a chiedere conferma, voltavamo veloci la testa, ora dietro, ora davanti, ora sopra, ora sotto, che pareva di sentire là un ticchettio, là un sibilo, là uno schiocco, là un fischiettio.
    Con la testa che girava in tutte le direzioni, ci arrampicammo verso l’uscita e, come eravamo entrati, ci ritrovammo fuori.
    Dopo quella avventura non provammo più a riscendere in una grotta né parlammo più di quello che avevamo sentito là sotto: solo a volte capitava che, mentre eravamo distesi su un prato, uno di noi voltasse veloce la testa, come attratto da un suono, e che la rigirasse subito, spaesato e confuso, ma nessuno ci faceva troppo caso.
    Anche al bosco, dopo un po’, smettemmo di andarci: più comodo stare a casa, ci dicevamo, più comodo andare al parco. Solo a volte, lontano sulla strada, sentivamo il tintinnare della roba del Conteflabis e ci coglieva un brivido d’orrore a immaginarlo lì, vecchio e smunto, che strisciava sottoterra come un serpente.

Letizia Rigotto


Letizia Rigotto
 ha studiato le Lettere a Venezia e a Roma. Da anni parla, scrive, produce cose varie e dalla dubbia utilità. Quando le mancano Catone e Romeo, guarda video di gattini.