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America Latina

di Giuseppe Fiore

America Latina, dir. Damiano e Fabio d'Innocenzo (Italia, 2021)

Il cranio di Massimo (Elio Germano), nel piano sequenza tra le stanze di casa, sembra uno di quei mappamondi che vediamo nelle aule americane delle serie tv. Il mondo, con le sue enormi potenzialità, in una palla su un ripiano. Lavora con la testa nella bocca delle persone. Anche il padre (Massimo Wertmüller), nella scena di dialogo, fa riferimento alla sua professione. I dentini che curi, gli sputa addosso, quasi schifato da quello che il figlio è diventato. Ma cos’è diventato? Un uomo affermato nel suo lavoro, come tanti, con un velo d’oscurità. Perché una persona che ha tutto dovrebbe sentirsi solo? Massimo sta affrontando quello che vive, il lavoro ci viene mostrato in modo marginale, così il rapporto con il padre e con l’unico amico che ha. Potrebbe essere tutto falso, perché dovremmo fidarci di una persona che non conosciamo e che ci racconta la sua storia? Eppure, una volta che il film parte, ci è voluto un po’, almeno per me, per notare il marcio. Ho creduto alle basi che il film poneva: dentista qualificato, padre, marito, figlio, possessore di una bella casa in periferia, amico pronto anche a fare un prestito oneroso. La scintilla arriva con la ragazzina, sporca in faccia, legata a un palo, in cantina. Non parla, urla, fa male alle orecchie. La storia continua. Lui è sicuro di non avercela portata, non chiama nessuno, si lascia lacerare da tutto. Tutto diventa così strano. C’è una scena, abbastanza lunga, in cui Massimo è in piedi nella sua camera, la moglie (Astrid Casali) stesa sul letto, il tutto ripreso da dietro i vetri spessi delle finestre: la sua protezione, un giubbotto antiproiettile, la realtà che si è costruito dentro la testa.

Scende, trova la ragazza, ne ha paura. Per terra è lercio. Anche la ragazza, legata lì, sembra parte della confusione. Massimo pulisce, raggruppa tutto in un angolo con una scopa. Si vede il pavimento, si vede lei, ancora legata, più pulita, le lascia delle felpe, la sua giacca. E lo spettatore continua a chiedersi perché? Perché non la lascia andare via, non chiama i soccorsi? Dopo un po’ ci accorgiamo che, quando è in casa in mezzo alle sue figlie (Carlotta Gamba e Federica Pala), lui è lì sotto, nella profondità della cantina. E tutto questo lo rende sempre più nervoso. Il non ricordare, l’alcool, la paura di essere fregato, la paura che la moglie o le figlie possano scoprire il suo segreto. Il nervosismo esplode nella violenza quando scende giù, quando rompe il tubo con una tenaglia di ferro. L’acqua inizia a uscire senza controllo, lui va via, lascia la ragazza sola. La scena in cui risale dalla cantina, con la macchina da presa posizionata sopra la scalinata, la luce che arriva da sotto, rivela le forme di un mostro. È Massimo il mostro, proprio lui, il dentista qualificato, con la bella casa in periferia. Massimo è il mostro che infila la testa nella bocca delle persone, per tenere puliti i denti, perfettamente bianchi. Massimo è lì sotto, violento, cerca una verità, la verità che la sua mente non è in grado di dargli. Ed è proprio la rappresentazione della realtà il nodo centrale del film. Della ragazza, delle donne che circondano la sua esistenza, della casa, del lavoro, dell’amico, del padre, in realtà non ci frega nulla. Arriviamo a un bisogno morboso di riconoscere la realtà ufficiale. Tutto è un pretesto per mettere in scena qualcosa che a noi spettatori non può che sembrare vero per la mancanza di altri punti di vista. Quello che vediamo, entrando nella mente di Massimo, è la realtà di un mostro, ma ha davvero meno valore? Che la moglie e le figlie non esistano, siano frutto del modello sociale in cui vorremmo vivere, in che modo influisce sulla storia? Alla fine potremo dire: Massimo è un pazzo, si è immaginato tutto. Se quella scena finale non ci fosse stata? Quale essere divino ci verrebbe a dire che quanto visto è frutto della sua immaginazione? Che quelle figlie non esistono, in realtà? Che la moglie è solo una sua proiezione in cui cerca sicurezza? Nessuno; tornando a casa e, ripensando al film, daremmo per buona l’esistenza di quelle persone. È questo: l’incredibile girandola di punti di vista in cui siamo immersi, senza scala gerarchica a cui affidarci.

(da sinistra) Carlotta Gamba, Astrid Casali e Federica Pala in America Latina (2021)

Vincitore del Nastro d’Argento al miglior soggetto originale nel 2022, America Latina non ha nulla a che fare con il Sud America. Il titolo fa riferimento alla provincia Laziale, immaginario che i fratelli D’Innocenzo hanno già cercato di raccontare già ne La terra dell’abbastanza (2018) e Favolacce (2020), entrambi ambientati nella periferia di Roma. Favolacce, ad esempio, fiaba horror che ha vinto l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura alla Berlinale del 2020, analizza la nostra società, il bisogno di apparenza verso gli altri e verso noi stessi, attraverso un maggior numero di punti di vista. Tra questi c’è anche quello di Elio Germano, che si conferma attore feticcio dei due registi, insieme a Carlotta Gamba, presente sia in America Latina (2021) che nella serie di prossima uscita Dostoevskij (2024), nei cinema italiani a partire da questo ottobre. Un poliziesco ambientato in provincia, in enormi distese abbandonate, con un serial killer che lascia lettere piene di dolore di fianco a ogni sua vittima. Una storia che si lega a quelle già raccontate dai due registi gemelli e che, immagino, cercherà di scendere ancora più in profondità rispetto ai temi già affrontati, grazie alla scelta di raccontare la loro storia in 6 episodi per un totale di 291 minuti.

Elio Germano in America Latina (2021)

Le riprese che i d’Innocenzo fanno, posizionandosi dietro Massimo, mentre cammina per i corridoi stretti, con questo testone in primo piano, lasciano un senso di grandezza e, allo stesso tempo, una sensazione claustrofobica. Possiamo solo urlare, come la ragazza nella cantina, tanto nessuno ci sentirà, perché al di fuori, oltre quelle pareti sotterranee, non esiste nulla di reale. Esiste quello che vogliamo e riusciamo a proiettare, ciò che riesce a convincere noi stessi. Nel poster si vede Elio Germano, di spalle, con la testa in primo piano, rotta in un punto, come fosse un vaso di ceramica: è l’occhiello da cui noi vediamo il film, il punto in cui i d’Innocenzo piazzano la macchina da presa per mostrarci questa storia, che è solo una delle mille storie possibili.

Giuseppe Fiore è nato a Matera nel 98. È laureato in Giornalismo e cultura editoriale . Ha pubblicato racconti su varie riviste letterarie.