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#Frate

di Anna Tosone

Illustrazione di Emanuele Liguori

Il sole, che si accende tramontando dietro il promontorio, spegne le figure che affollano la spiaggia, la trasparenza dell’acqua, il vento che la increspa. Corpi neri in controluce si muovono senza ombra; il mare lucido come petrolio non ha profondità, la brezza di terra lo stira.

«Goooooooaaaaal!» urla un ragazzo abbronzato planando in giro come un aliante. 
«Paaaaaallaaaaaa!» grida il portiere che non ha parato, seguendola con lo sguardo per non assistere a quei festeggiamenti. 
La palla rimbalza tra gli asciugamani, distrugge un castello di sabbia, rotola sotto gli ombrelloni e urta un piede ustionato dal sole, riverso sulla sabbia. Senza energia. La quantità di moto si conserva; la palla torna indietro, si ferma poco più in là. 

Ma alla fine che mi costa?, si domanda Mattia, ma alla fine che ti costa?!, si convince. E  insegue la palla oltre gli asciugamani, le macerie, gli ombrelloni; chiede scusa nel farlo. 

Quest’estate ha lasciato la porta, gioca in difesa, ma non si è liberato dell’incombenza di fare quello che gli altri non hanno voglia di fare: recuperare una palla, cedere il posto sul tram, riaccompagnare a casa quella brutta, offrire il primo giro di birra; al secondo non arrivano ancora. 

«Mi scusi…» dice anche all’uomo ustionato dal sole, riverso sulla sabbia. Senza energia. E si china a recuperare il pallone. 

L’uomo non risponde. Continua a fissare il cielo rosa sotto un paio di fotocromatiche: l’espressione è distesa, il corpo sudato; un saio marrone, ripiegato con cura, gli sorregge la testa, tra i peli del petto un tau francescano, ma il membro è duro nelle mutande lente.

Mattia prende la mira, cerca il campo racchiuso nel solco che ha scavato sotto il sole di mezzogiorno. Nessuno aveva voglia di farlo: ha trascinato lui il tallone sinistro nella sabbia bollente. 
Calcia secco e deciso. 

Uno stop di petto, un palleggio; il gioco riprende senza di lui. 
Calcia, delicato e titubante, anche il piede del frate. Che non si muove. «Ragazzi, mi sa che è morto» constata. 
«Gooooooaaaaaaal!» 
«Paaaaallaaaaaa!» 
Mattia la insegue. Fugge. 

I corpi neri abbandonano la spiaggia in ordine contrario a quello di apparizione: gli anziani prima, le famiglie poi, i ragazzi infine, le coppiette ancora. Il frate resta lì. 
Mattia infila il pallone nello zaino, scrolla l’asciugamano umido di sabbia, scola l’ultimo sorso di birra, chiude il corteo di marmitte truccate che sfreccia sulla statale, verso il paese. Non è nemmeno così brutta, si rincuora salutando Matilde.

La porta si apre senza giri, l’aria sa di muschio bianco e cipolla, il telegiornale non ha finito di chiacchierare le disgrazie della domenica. Mattia posa lo zaino in camera, controlla che la sabbia tra i piedi sia più una sensazione che un’evidenza, va in cucina. La tavola è apparecchiata sotto la luce gialla che allarga lo spazio, suo padre la presiede. 
«Hai lavato i piedi?» domanda sua madre senza perdere di vista il soffritto. 
«Stai zitta che non sento niente!» la riprende il padre con un pugno sulla tovaglia a quadri. E alza il volume della televisione. Pubblicità. 

Mattia non saluta, non risponde: si siede, tira fuori il cellulare, scorre con il dito lo schermo, pubblica una storia di quella giornata, scorre distratto quelle degli altri, mette un like, lo toglie, ascolta dei vocali a cui risponde esagerando con gli emoticon. 
Lucidato il piatto con il pane della settimana, si alza, lo posa nel lavello ed esce. Senza salutare, ma senza sbattere la porta. 

La strada che porta in spiaggia di notte fa paura: il semaforo lampeggia solo l’arancione, le macchine sono rare, e quando passano sfrecciano senza attenzione; le curve arrivano all’improvviso e il granturco che le costeggia, pare più alto, più fitto. 
Mattia parcheggia nell’angolo livido da lampione al neon e segue la passerella di legno che si perde nel buio. La sabbia è fredda, umida, la luna già alta; il mare rumina la battigia onda dopo onda, senza deglutirla. Anche il frate è parte di quel bolo: i piedi,  le ginocchia, il ventre gonfio. 

Mattia si siede al suo fianco, inspira l’aria satura di salsedine e putrefazione, cerca l’orizzonte che non c’è. Sospira. 
É rilassato: non è mai stato così vicino a un frate. Ha paura: nemmeno a un morto. Sorride: figurarsi a un obeso bruciato dal sole, in mutande.
Un cellulare suona una musichetta di repertorio, vibra mettendo in risonanza le guance morte. Mattia solleva il capo del frate, sfila il saio, tira fuori dalla tasca il cellulare e lascia terminare a vuoto la chiamata. Isabella nuovo senza risposta. Sblocca lo schermo, con l’indice freddo del frate. Venti chiamate senza risposta, diversi messaggi, qualche mail, la notifica del contapassi: muoviti. Sbircia nella galleria del telefono: un peschereccio inseguito dai gabbiani, una coppia che si abbraccia in acqua, due bambini con un castello, le mani curate di una donna. 

Apre Instagram. 

Si allontana, cerca la distanza, l’angolazione migliore, scatta una foto: il promontorio, la spiaggia deserta, il nastro d’argento sul mare antracite, la luna nel cielo cobalto; il frate supino, color magenta, in mutande; i piedi in acqua, le ginocchia, ma l’ombelico spunta ancora; il saio scuro, sulla sabbia chiara, a fargli da ombra. Localizza la foto, sceglie gli hashtag. Pubblicazione in corso.

Il post di padre Antonio è per un attimo in cima alla bacheca. Poi sprofonda: dietro una chiesa di campagna in travertino, il reel di una processione, i talebani che invadono Kabul. Ma prima del vangelo del giorno, le notizie dell’Ansa, la pubblicità di un paio di sandali di cuoio.

Un like. Due. Tre…

Anna Tosone è nata il primo marzo del 1990 sull’Adriatico, ha frequentato l’Accademia Navale della Marina Militare sul Tirreno, vive e lavora sul Mar Ligure. È laureata in Ingegneria Navale e riveste il grado di Tenente di Vascello nella Marina Militare Italiana. Ha partecipato alla quarta edizione di A caccia di storie e da allora collabora con l’agenzia Book on a Tree. Ha una bici gialla. È piena di grilli.

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