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Una famiglia felice

di Alessia Incampo

Illustrazione di Lorenza Moretti

Il cubo panciuto poggiato sul mobile trasmetteva Le avventure di Peter Pan e la bambina seduta sul divano lo osservava incantata con la bocca socchiusa e le gambe penzolanti.
Ad un tratto comparve il perfido Capitan Uncino e la bimba sussultò per lo spavento, nascose la faccia nel cuscino e strinse a sé il giocattolo giallo.
«Mammina ho paua! Mammina!» gridò con la vocina tremante.
Si guardò attorno e solo dopo qualche istante si ricordò che era rimasta sola. Per fortuna il pirata era scomparso e nella scena successiva tutti i personaggi avevano ripreso a cantare e ballare.
Tirò un sospiro di sollievo e rimise il cuscino al suo posto. 
Le sembrò passata un’eternità da quando la mamma e il papà si erano chiusi nella stanza in fondo al corridoio.
«Mammina e papà devono parlare di cose da grandi. Elide, ti va di restare qui a guardare un cartone animato?» le aveva chiesto la mamma con gli occhi rossi.
«» Aveva risposto lei con una “s” che somigliava molto più ad una “c”.
Il papà stava finendo di fumare una sigaretta affacciato alla finestra e appena la bambina aveva acconsentito a starsene buona per un po’, aveva spento il mozzicone e chiuso le imposte.
La mamma aveva inserito nel lettore una videocassetta senza nemmeno guardarne il titolo e i due si erano dileguati lasciando Elide ai titoli di testa.
Se c’era una storia che lei proprio non sopportava era quella di Peter Pan: l’ombra del protagonista che vagava in ogni dove la terrorizzava, per non parlare del pirata cattivo che le faceva visita nei suoi incubi, squarciando con l’uncino le lenzuola e le coperte; poi non aveva mai visto il finale perché, per sbaglio, il papà ci aveva registrato sopra una partita di calcio. 
Perciò non protestò quando scoprì il film che le avevano rifilato perché qualcuno, sentendo la voce del telecronista, si sarebbe di certo accorto dell’errore e avrebbe rimediato.
Se fosse arrivato il papà si sarebbe limitato a mettere su un altro cartone animato dicendole «Tanto lo sai come finisce, no?», e lei avrebbe annuito impaziente di vedere finalmente un altro film. La mamma invece, si sarebbe scusata stampandole un bacio sulla guancia paffuta e le avrebbe proposto di fare merenda insieme.
Tuttavia quando i bimbi sperduti scomparvero lasciando il posto a una frotta di omini, nessuno si preoccupò di sostituire la cassetta né di prepararle pane e nutella.
«Mammina!» gridò Elide.
Attese qualche istante, ma non si fece vivo nessuno. Scese dal divano e si avvicinò il più possibile alla scatola magica: le immagini erano formate da migliaia di puntini in movimento che, quando Elide tornò a sedersi, scomparvero.
Corse avanti e indietro finché quel gioco cominciò ad annoiarla e recuperò il giocattolo giallo che giaceva abbandonato sul sofà.
Accarezzò con le dita gli occhi e le guance di quella specie di coniglio, poi passò all’unico orecchio triangolare che gli era rimasto, quello con la punta nera, e strofinò il polpastrello sul nastro isolante che teneva unite le due metà del corpo. Schiacciò uno dei  piccoli tasti di gomma e dai fori sul retro uscì un «Pika-chu».
Elide sorrise, lo avvicinò alle labbra e gli diede un bacio.
Infilò il giocattolo nella tasca della gonna e trascinò una sedia vicino al mobile, spostò due ciocche di capelli dietro le orecchie. Appoggiò un ginocchio sulla tavoletta rettangolare che costituiva la seduta e si diede lo slancio con l’altra gamba, mentre le manine erano ancorate allo schienale. Si mise in piedi e guardò di sotto, orgogliosa della scalata appena compiuta.
Allungò un dito verso l’interruttore del cubo e in un attimo gli omini che correvano sul prato scomparvero in un turbine nero.
Nel silenzio in cui era immersa la stanza riusciva a sentire il papà gridare e la mamma piangere. Guardò di nuovo in basso: adesso bisognava scendere.
Chiese consiglio al coniglio giallo con un orecchio solo e quello le rispose: «Pika-chu», Elide annuì, strizzò un occhio, socchiuse l’altro e saltò giù dalla sedia.
L’atterraggio era stato perfetto, ma il giocattolo le era scappato dalle mani e si era schiantato sul pavimento di grés porcellanato. La bambina trasalì e corse preoccupata da lui, lo sollevò da terra e gli chiese:
«Tai bene?»
Controllò che le due parti fossero ancora saldamente unite tra loro, tirò su col naso e ordinò:
«Rippondi!»
Il cuore della bambina batteva rapido nel petto e le mani si bagnarono di sudore. Schiacciò con tutta la forza che aveva uno dei bottoni e il giocattolo disse: «Pika-chu». Elide sospirò, gettando via in quell’afflato tutta l’angoscia che aveva provato. Portò il giocattolo all’altezza degli occhi e lo rimproverò di essere un monello, l’aveva fatta spaventare e una cosa del genere non doveva farla mai più. Incurvò le sopracciglia e tentò di assumere un’espressione severa che non durò più di qualche secondo.
Abbracciò forte il coniglio con un orecchio solo e decise che era il caso di perdonarlo. Lo guardò ancora qualche istante e ragionò sul da farsi.
Si diresse verso la stanza in fondo al corridoio e i piedini scalzi lasciavano impronte umidicce sul pavimento. Elide bussò ma il suono prodotto dal suo pugno non fu sufficientemente forte da sovrastare le urla del papà:
«Lo vuoi capire che mi fai schifo? Schifo!»
Elide mise una mano davanti alla bocca, quando le capitava di dirlo davanti a un piatto di broccoli la mamma la rimproverava: «Si dice ‘Non mi piace’ non ‘Che schifo’. Certo, la mamma si arrabbiava, ma non l’aveva mai sentita piangere per quella parola.
Elide prese il giocattolo giallo, spinse il pulsante e quello disse «Pika-chu». Gridò: «Mammina!»  con tutta la forza che aveva e sentì la voce graffiarle la gola per lo sforzo.
Si udì il suono di uno schiaffo, a Elide ricordò quello della frusta del domatore di tigri che aveva visto una volta, quando i nonni l’avevano portata al circo.
Bussò ancora alla porta fino a quando le nocche non divennero livide.
La bambina continuò a premere il pulsante ancora e ancora e ancora e altrettante volte il coniglio giallo da un orecchio solo disse «Pika-chu».
La porta si aprì. In piedi davanti a lei c’era il papà con la faccia rossa e una vena ben visibile sulla tempia, la scrutava dall’alto come se volesse carpirle un segreto.
In pochi secondi l’uomo passò in rassegna gli occhi di Elide, le labbra e il naso, le prese il mento tra due dita e alla bambina sembrò di essere stata infilzata da un uncino. La mamma era accasciata al centro della stanza e si asciugava le lacrime.
«Piccola bastarda» sussurrò l’uomo.
Elide spinse ancora una volta il pulsante e l’uomo le afferrò il polso. La bambina emise un gemito di dolore, le dita tozze e maleodoranti di fumo le stringevano la carne.
«Non le fare male!» urlò la mamma.
«Questa è la volta buona che te lo scasso!»
Il papà prese il giocattolo giallo e lo gettò a terra. Sul polso della bambina erano rimasti dei segni rossi. Il papà la guardò negli occhi e con un colpo deciso del piede pestò il giocattolo che si frantumò all’istante. Elide rimase immobile con gli occhi fissi sui pezzettini di plastica gialli, le molle e la piccola scatola nera che fino a pochi istanti prima aveva costituito le corde vocali del giocattolo. L’uomo uscì di casa sbattendo la porta.
La mamma si avvicinò alla bambina che aveva iniziato a piangere e l’abbracciò forte. Elide intanto si era seduta sulle ginocchia e passava in rassegna i frammenti del corpicino distrutto. Prese tra le dita un pezzo con l’occhio, sfiorò la parte nera dell’orecchio e provò a premere su un bottoncino di gomma, ma questa volta la carcassa del coniglio giallo non emise alcun suono.
«Mammina…»
«Dimmi amore».
«Lo possiamo aggiustare anche questa volta?»
«No amore» disse la mamma tirando su col naso,  «questa volta no».
«Ma tu hai detto che le cose rotte si possono sempre aggiustare».
«Mi sbagliavo».

Alessia Incampo ha 20 anni, viene dalla murgia Pugliese e attualmente vive a Torino. Come molti altri coetanei si è trasferita per inseguire un sogno e studia scrittura alla Scuola Holden, magico luogo in cui sente di star trovando la sua voce. Condivide il giorno del compleanno con Walt Whitman e la frase riassuntiva della vita di questa giovane donne è appunto una citazione del poeta: “Mi contraddico? Certo che mi contraddico, sono vasto, contengo moltitudini”. Non ha ancora pubblicato nulla sulle riviste ma sente di avere storie interessanti nel cassetto e d’altronde vince sempre la perseveranza.

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