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Alianti

di Emma Mattiussi

Illustrazione di Lorenza Moretti

Prima del luglio dei tuoi dieci anni passammo tutte le estati in piscina, nel club privato di cui i miei e i tuoi genitori erano soci. Sopra di noi volavano silenziosi gli alianti, trasportati nel vento.

Mio papà mi aveva spiegato che gli alianti decollavano legati a un aereo a motore e che poi, alla quota perfetta, si staccavano dal cavo e volavano soli. La pista doveva essere abbastanza lontana dalla piscina perché non sentimmo mai alcun rumore. Quello che vedevamo io e te – distesi sulle piastrelle bollenti, gli occhi schiusi verso il sole – erano giganteschi volatili di ferro che attraversavano la nostra fessura di cielo. Passavano in silenzio, sfidando le leggi del mondo, per le quali una cosa più pesante dell’aria e senza motore deve per forza cadere verso terra. Loro no, erano nel vento e ci chiedevamo, ricordati, dove sarebbero andati dopo aver lasciato la loro ombra sulle nostre ciglia.

Io e te ci divertivamo con poco, ma all’epoca non ci sembrava poco: le formiche in fila indiana che trasportavano le briciole del nostro pranzo, le vespe che si contorcevano nelle pozzanghere, le cameriere e le loro corte gonne bianche, il modo in cui bilanciavano sui vassoi i drink colorati dei nostri genitori. I miei capelli per il cloro diventavano prima biondissimi poi verdastri, quasi trasparenti, e mi trasformavo in sirena. I tuoi ricci neri si illuminavano di strisce ramate, i contorni del tuo viso si facevano spigolosi più l’estate avanzava e io non potevo evitare di spiarti con la coda degli occhi quando non lo sapevi. Giocavamo in acqua pomeriggi interi, io e te, a fare gare di apnea, giravolte, verticali, la nostra piccola società di due all’interno della società esclusiva del club.

Quando qualche altro bambino ci avvicinava lo accoglievamo solo in apparenza. Dalle nostre famiglie distratte, sempre al telefono, e dalle scuole private avevamo imparato che ci bastava poco, io a te e tu a me, e non ci sembrava poco. Così quando un altro bambino chiedeva di giocare con noi, ci inventavamo le attività più strampalate e noiose: mi facevi ridere in smorfie e contorsioni, quando proponevi di calciare i sassi del vialetto che portava al ristorante, creavi un polverone e ci correvi dentro a occhi chiusi, braccia aperte. Io pretendevo di voler intrecciare braccialetti di fiori e di incollarmi le dita con la pece finché non riuscivo più ad aprire la mano. E l’intruso nel giro di un pomeriggio sceglieva di lasciarci alla nostra intesa segreta.

Io e te, protagonisti di quella piscina per anni, e di anni ne avevamo pochi. Gli adulti del club avevano iniziato a chiamarci gli squamati per il tempo che riuscivamo a passare in acqua. Fu però una bambina piccola a renderci mere comparse e a sottrarci quelle estati. E a sottrarti da me, tu che dopo quel 10 luglio non rividi mai. Tua mamma si era sentita male alla vista della bambina e aveva deciso di non portarti più al club. Anche i miei si erano spaventati ma erano buoni amici del presidente e di sua moglie, perciò quell’estate tornai al club qualche volta, per una questione di cortesia, ma sempre più raramente finché non ci tornai più.

«Quando si muore si vola in cielo» mi avevi detto una volta tu. L’avevi sentito a scuola, quando un tuo compagno aveva perso la nonna, ma entrambi non capivamo bene in che senso. Pensavamo, ricordati, che se fossimo rimasti abbastanza tempo sott’acqua, trattenendo il respiro, saremmo finiti sopra, nel vento.

Passammo i pomeriggi a guardarci galleggiare senza peso e lontani dai rumori ovattati delle persone sdraiate intorno alla piscina – donne in bikini bianchi, uomini con occhiali a goccia. Ci sentivamo irraggiungibili dalle leggi del mondo (dalla gravità, dai suoni, dai drink dei genitori che si facevano a ogni giro sempre più colorati), compressi nel corpo liquido che ci avvolgeva. La sera andavamo a dormire senza fiato, con gli occhi rossi che pizzicavano di cloro, ma andavamo a dormire sapendo che ci avremmo riprovato il giorno dopo.

Quel 10 luglio dell’estate dei tuoi dieci anni una bambina ce la fece: cadde in acqua e non tornò più in superficie, a prendere l’ultimo respiro. Cadde convinta, e io e te, distesi a prendere fiato sulle piastrelle bollenti del bordo piscina, la guardammo cadere. La guardammo con ammirazione, ricordai. Eravamo nuotatori provetti dall’inizio del mondo: le nostre madri avevano entrambe partorito in acqua, come la moda esigeva. Eppure io non mi mossi, la schiena e le gambe ossute che aderivano alla pietra calda, l’acqua intorno alla mia sagoma che evaporava impercettibilmente. Volevo guardare, volevo la prova concreta che sarebbe volata in cielo come l’aliante che in quel momento gettava un ombra silenziosa sulla piscina. Non so perché tu non ti mossi: forse credevi ciecamente al nostro gioco, forse ti sembrava di sognare, forse ti sei reso conto che il giorno dopo avresti compiuto dieci anni e dieci anni sembrano pochi per salvare una bambina ma non lo sono. Lei era nell’acqua, lei era nel vento, figlia di nessuno.

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