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Rami e fronde tra noi e il cielo

di Lucia Tradii

Illustrazione di Alessia Iuliano 

Mia nonna mi raccontava che quando era ragazzina raccoglieva le castagne insieme ai suoi genitori e ai suoi fratelli, per tutta la durata dell’autunno. Era un lavoro duro, ma lei trovava comunque il modo di svagarsi. Mi disse che si era arrampicata su ogni albero del loro castagneto, soltanto per il gusto di farlo. Quando le domandai che cosa si prova a stare su un albero, lei mi rispose che è come entrare in un altro mondo, tanto è repentino il cambio di prospettiva. Quello che normalmente appare grande e invalicabile, da lassù è così piccolo da fare tenerezza. E, per lei, era come entrare in un altro corpo, un corpo più forte e più debole allo stesso tempo. Io non capivo cosa intendesse dire, ero già persa a studiarle le gambe e le braccia, così piccole e rugose, e faticavo a immaginarmele diverse da quelle che si mostravano davanti ai miei occhi. Era uno sforzo mentale doloroso pensare che il mondo e le persone fossero esistiti prima di me. L’ammirazione che provavo per mia nonna, per come me la raffiguravo da giovane, venne subito punta dalle spine dell’invidia. Per contrastare queste spine dovetti ricorrere al bisogno di emularla, e infine di superarla. Iniziai ad arrampicarmi sugli alberi da frutto di mio padre. I meli e i peri erano insidiosi, la corteccia mi si sbriciolava tra le dita e i rami erano fitti e spigolosi che sembravano fatti apposta per cacciarmi via. I ciliegi, invece, avevano i rami che si aprivano a ventaglio verso il cielo, lunghi e flessibili, la corteccia elegante e profumata. Me ne stavo lì seduta per delle ore, a rimirare i campi ingialliti dal sole estivo, a spiare la vita segreta degli uccelli, a gustare la sensazione vertiginosa che qualcosa di bello stava per accadere. Gli alberi, all’improvviso, non mi bastarono più. Per il mio undicesimo compleanno chiesi in dono una casetta sull’albero, pensando ingenuamente di sollevare i miei genitori dallo sforzo di spendere soldi in un negozio di giocattoli. Mio padre fu, dei due, quello più rabbioso nel buttarmi in faccia la risposta negativa, mentre mia madre se ne stava impalata, incorniciata dagli stipiti della porta, ad attorcigliarsi le mani. Scappai sul mio ciliegio preferito, finché vennero a pregarmi di rimettere i piedi a terra. In cielo si espandeva la macchia rossa del tramonto, le montagne erano soltanto profili neri di gobbe lontane. Soffiava un vento fresco da est. Pensai che potevo rimanere lassù per sempre. Forse ci sarei anche riuscita se non mi avessero detto che da quelle parti circolavano dei lupi che erano, tra le altre cose, degli ottimi arrampicatori. La sera del mio compleanno, che coincide col solstizio d’inverno, non mi presentai alla consueta accensione del ceppo di Natale, una tradizione contadina, ancestrale, decisamente pagana nonostante il nome che le hanno affibbiato, a cui mia nonna era molto affezionata. Strappai comunque una pagina dal mio quaderno di matematica e ci scrissi sopra, con caratteri grandi e maiuscoli, “casetta”. Accartocciai il foglio in una palla di carta, ma subito mi sentii colpevole per quel gesto, allora lo stirai per bene con l’avambraccio e lo piegai quattro volte. Davanti al camino della cucina c’erano i miei genitori e mia nonna, sui loro volti ballavano le luci e le ombre create dal fuoco. Mi avvicinai senza dire una parola e gettai tra le fiamme il foglio di carta piegato. Subito anche loro gettarono i propri biglietti nel camino: i desideri per l’anno nuovo. Mi avevano aspettato. Rimasi il tempo necessario per guardare il mio desiderio bruciare, immaginai le lettere che lo componevano evaporare nel fumo, farsi strada verso l’altro. Dopodiché tornai a chiudermi nella mia stanza. Qualunque cosa fosse il regalo di quell’anno, l’ho dimenticato. Non toccammo più l’argomento, tuttavia qualcosa mutò in mio padre. Quando alla mattina, prima di andare a scuola, entravo in cucina per fare colazione, lo trovavo in piedi davanti alla finestra, con indosso la tuta da lavoro e una tazzina di caffè in mano. Osservava la grande quercia che svettava nell’aia davanti casa. Ogni tanto si scambiava un’occhiata con mia madre che, da sopra una tazza di tè fumante, allargava gli occhi come per dire «hai capito?». Altre volte, ma più raramente, si voltava verso di me. Io facevo finta di essere ipnotizzata dalle figure colorate che saltavano sullo schermo della tv, ma con la coda dell’occhio catturavo lo scatto della sua nuca. 

Illustrazione di Emanuele Liguori

Con l’arrivo della primavera e del bel tempo, iniziò a studiare la quercia da vicino. Ci girava intorno come se fosse qualcosa di mai visto prima, come un antropologo davanti a un totem. A volte appoggiava la mano sul tronco e stava immobile per lunghi minuti, lo sguardo perso in pensieri lontani. Dalla finestra lo vedevo sempre girato di spalle, e mi dispiacevo nel trovarmi esclusa dal suo mondo interiore. Alla vigilia dell’estate arrivarono le tavole di legno e così mio padre passò tutti i finesettimana successivi a tagliare e a inchiodare. Dal piccolo freezer della cucina mia madre tirava fuori una birra, la stappava e imitando un tono solenne mi ordinava di portargliela. Io ubbidivo frenando l’entusiasmo della corsa, spingendo il piede in ampie falcate. Quando mio padre mi vedeva arrivare interrompeva qualsiasi cosa stesse facendo, si stiracchiava e mi aspettava sorridendo. Gli ultimi passi che mi conducevano da lui sembravano più leggeri, come se la fatica del corpo mi fosse stata sospesa, perché erano passi vegliati dal suo sguardo. Quando la casetta fu completata impazzii di gioia. Abbracciai mio padre e gli dissi che gli volevo bene, fu l’unica volta. Lui mi raccomandò semplicemente di stare attenta, ma nel suo volto vidi una nuova preoccupazione, come se gli fosse spuntata una nuova ruga in quel preciso istante. Per la prima volta lo vidi vecchio. I miei genitori mi hanno avuto tardi, forse avevano persino abbandonato le speranze di avere dei figli, prima che spuntassi io. Quando avevo dieci anni, mio padre ne aveva già sessanta. In quel momento, abbracciati sotto la quercia che reggeva la casetta, non me ne resi conto, ma io ero l’unico fiore della sua pianta vecchia e ròsa.

Illustrazione di Alessia Iuliano 

«Non mi pare un granché»

«Già, potrebbe caderci in testa»

Così commentarono un paio di bambine che avevo portato nei pressi della casetta, prima di girare i tacchi e tornare dalle loro biciclette rosa scintillanti, abbandonate in mezzo all’aia. Non mi chiesero di andare con loro e io non cercai di trattenerle, anzi, mi apprestai ad arrampicarmi prima che a una di loro venisse il sospetto di voltarsi e scorgermi nel viso l’inizio del pianto. 

Francesco fu l’unico tra i miei coetanei a salire sulla casetta. Non c’era tanto spazio per giocare, quindi avevo paura che lui si potesse annoiare e andarsene via. Lo feci sedere sopra un vecchio tappeto, mentre io parlavo a vanvera senza dire niente, con il solo intento di mantenere acceso l’interesse. Avevo portato una scatola di cereali Nesquik, con il cartone giallo che risplendeva nell’ombra. Versai il contenuto in una ciotola e lo appoggia sul tappeto, vicino a Francesco, e appena lo feci mi resi conto di quanto fosse una misera cosa. Lui prese una di quelle palline al cioccolato e se la rigirò tra il pollice e l’indice, poi se la mise in bocca, facendola esplodere sotto la pressione dei denti.

«È come un picnic» Rise e si portò alla bocca un’altra pallina.

Da quel giorno la casetta sull’albero divenne il nostro rifugio: giocavamo a carte, briscola e scopa, oppure a dama. Ci sfidavamo col game-boy, o leggevamo Topolino, l’uno appoggiato alla schiena dell’altra, ma spesso ricordo che, con i piedi a penzoloni, facevamo lunghe chiacchierate su come ci immaginavamo la vita da grandi. Da quella posizione potevamo controllare tutta l’aia, che era cosparsa dei miei giochi e degli attrezzi di lavoro di mio padre. Erano così piccoli, visti dall’alto, che mi fecero tenerezza.

Illustrazione di Alessia Iuliano 

 

«Da quassù» Dissi a Francesco «sembra tutto diverso, anche io mi sento diversa. Alta, potente, invincibile, ma la vertigine mi fa sentire piccola e fragile, sapendo che potrei cadere da un momento all’altro. Si può essere deboli e forti allo stesso tempo?»

Francesco non rispose, ma da quel momento qualcosa mutò nel suo modo di guardarmi.

La nonna ci lasciò verso la fine dell’estate. La perdita però non ci fece interrompere la tradizione del ceppo di Natale, anzi la portammo avanti anno dopo anno, per tutta la vita. La sera del mio dodicesimo compleanno ottenni il permesso di salire sulla casetta, prima dell’accensione del ceppo. Portai con me una piccola candela, forse per ricreare la stessa atmosfera in quel posto che sentivo come una seconda casa. Accesi la candela e rimasi a guardare il tramonto. Forse fu proprio la luce della candela a incoraggiare Francesco. Vidi spuntare per primi i suoi riccioli biondi, seguiti da un sorriso per metà imbarazzato e per metà compiaciuto.

«Ti ho portato una cosa. Buon compleanno»

Mi porse un pacchetto rovinato e ricoperto di scotch, che mi fece intuire che l’avesse impacchettato da solo. Dentro c’era una copia del Barone rampante.

«L’ho dovuto leggere per la scuola. Mi ha fatto pensare a te»

Puntò l’indice proprio sopra la “b” del titolo.

«Sei tu» Disse sorridendo.

«Cioè» Si corresse subito «non voglio dire che sei un maschio. Al massimo sei una baronessa»

Si grattò la nuca con le unghie. Aspettava che gli dicessi qualcosa, ma era stato tutto così improvviso che non trovai nemmeno le parole per ringraziarlo. Veloce lo vidi scendere dalle scale e sparire dalla mia vista. Tutto intorno si era tinto con i colori del tramonto, che mi fecero ripensare alle mie prime arrampicate sugli alberi di ciliegio, e avvertii la stessa sensazione pungente di una piacevole novità in arrivo.

L’ultima volta che salii sulla casetta avevo sedici anni. Era una notte estiva, sospesa per il caldo che perdurava fino a sera. Nei campi intorno cantavano i grilli e nella parte più buia dell’aia si vedevano le lucciole sbrilluccicare a intermittenza. Francesco ed io ci arrampicammo in silenzio. Il senso di colpa mi fece voltare verso la casa, immobile e oscura, se non per la finestra del salotto illuminata dalla luce bluastra emanata dalla televisione. Vidi chiaramente, come se li avessi davanti agli occhi, i miei genitori sul divano. Mia madre distesa con le braccia incrociate, già intenta a dormire anche se non l’avrebbe mai ammesso, i piedi appoggiati sulle ginocchia di mio padre, che, come un gargoyle si reggeva il mento con le nocche, fedele al suo ruolo di protettore della famiglia, della casa, della tv. Lasciai quell’immagine vagare ancora un po’ nella mia mente, e quando si dissolse nel buio della notte, ripresi a salire dietro a Francesco.

E ora sarebbe bello poter raccontare di quanto fossi consapevole che quella era l’ultima volta che salivo in casetta, di come, lasciato scendere Francesco prima di me per rimanere da sola, io abbia accarezzato ogni trave, impresso nella mente ogni dettaglio, pianto, esplicitato il mio amore. Ma tutto questo sarebbe solo una bugia. La verità è che a quel punto arrivarono altre cose: il motorino, poi la patente, il sabato sera in discoteca, la domenica pomeriggio al lago, l’esame di maturità e poi quelli dell’università. Ogni cosa si fece più importante, e vorticava attorno alla mia mente, e la casetta, tanto desiderata, divenne una volta ottenuta una parte del paesaggio, qualcosa di cui mi ricordavo nei fugaci momenti in cui alzavo gli occhi dai manuali universitari o da una serie tv sparata su Netflix. Era diventata una cosa che guardavo solo attraverso il vetro della finestra. 

Adesso capita a volte che, quando vado a trovare i miei genitori con il mio fidanzato, che non è Francesco già da un po’, lo sguardo mi si soffermi sulla grande quercia dell’aia. Io allora mi metto a cercare i segni che possono testimoniare che la casetta è esistita, che non è stata soltanto il frutto di un sogno, ma la natura si è già ripresa il suo posto, e io non vedo altro se non i rami e le fronde mossi dal vento. 

Lucia Tradii nasce nel 1994 sull'Appennino, in provincia di Bologna. Studia Italianistica presso l'università di Bologna. Altri suoi racconti sono apparsi su Malgrado le mosche, Voce del verbo e Quaerere.

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