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Non ne faccio una giusta

Illustrazione di Gabriela Angulo

di Giulio Iovine

Alla fine poi alla festa sono andato anch’io, ma solo perché il brufen ha fatto effetto. Non avendo più mal di testa, mi seccava di essere l’unico che rompeva le scatole per non andare. Per la prima mezz’ora ha guidato Sara, poi ci siamo resi conto che aveva lasciato a casa il portafoglio con la patente e allora hanno messo a guidare me, con Sara davanti a darmi le indicazioni. Non ho avuto cuore di dirgli che non ho mai preso la patente.
Arrivati alla festa ero di nuovo di cattivo umore perché io queste cose ciclopiche non le capisco. La villa del festeggiato era un ex policlinico dismesso trent’anni prima e trasformato in una roba tipo Getty Villa a Los Angeles, si estendeva sulle cime di due colline gemelle, ma proprio le cime, nel senso che gli ultimi dieci minuti di macchina non riuscivo a mettere neanche la seconda, eravamo in verticale, e curva mo’, e fai il tornante, madonna che vomito, e questo precipizio che si apriva ogni due per tre. Abbiamo parcheggiato su un prato in pendenza e siamo entrati dal cancello principale, che si apriva sul fianco della prima collina, praticamente un pratone di qualche chilometro quadrato piantato a olivi, faggi, querce e abeti. La gente era sparsa per questo prato come a un concerto, molti avevano steso la tovaglia e ci facevano picnic o fumavano o suonavano la chitarra. Io per dispetto ho cominciato a contare i partecipanti e arrivato a cinquemila mi hanno chiesto se per favore basta, che poi in casa si finivano il buffet. Così abbiamo arrancato fino alla porta della casa vera e propria, preso l’ascensore – ancora nessuna traccia del festeggiato, che peraltro io non avevo mai visto in vita mia – e premuto il pulsante del cinquantesimo piano.

– Perché il cinquantesimo?
– È l’ultimo. Secondo me sono lì.
– Ma che ne sai.
– Ma non gli puoi mandare un whatsapp?
– Eh, non prende quassù.

L’ascensore si apriva su un lunghissimo corridoio. Dopo dieci minuti che lo percorrevamo ci siamo accorti che dava su un balcone, e giù dal balcone c’erano il precipizio – una vaga nebbiolina sul fondo – e forse il fiume. Lungo questo corridoio si aprivano trentanove stanze, tutte completamente vuote. Erano camere da letto, organizzate allo stesso modo ma con dettagli sempre diversi. Il letto era sempre a baldacchino, ma trapunta coperta e tende erano colorate ognuna a suo modo; la carta da parati ora era a fiori, ora a piante, ora a geometrie; il tappeto era arabescato o monocromo; gli armadi erano di vetro o di legno, ma sempre alti fino al soffitto. Gli armadi erano pieni di abiti. Non c’era una porta che desse su un bagno.

– Ma coso, Egidio dorme qui…?
– Forse sì. In una qualunque di queste stanze.
– Ma sono tutte perfettamente in ordine.
– E non vedo la sua roba da nessuna parte.
– Non credo che qui ci dorma mai qualcuno, sapete?
– Ma allora a che servono?
– Boh? Egidio mi ha detto che in casa sua ci sono un sacco di stanze vuote.
– Vabbè, se vedete Egidio salutatecelo, ha detto Marco, poi ha preso Sara per mano e sono entrati nella prima camera libera. Da fuori abbiamo sentito la serratura chiudersi a scatto.
– Speriamo che ci sia il bagno, ho commentato.
– Ma secondo me ogni stanza ha il suo bagno privato, Sandro. Sennò non si spiega.
– Vabbè, quindi si riprende l’ascensore?
– Eh sì, dai, facciamoci altri piani a caso e vediamo.

Al piano 43 c’erano solo bagni. Trentanove bagni tutti uguali, con la vasca e la doccia separate, e almeno due stanze apposta per la sauna, con finto geyser e fontana di acqua sulfurea. Intestardito, riuscii a trovare un bagnetto più discreto, con la doccia incastrata nel muro, lavandino, water, bidet e lucina spettrale. Quello sì, potevo usarlo, gli altri mi facevano venire il nervoso. Al piano 38 c’erano tutta una serie di stanze vuote, tranne una in cui due ragazzi pomiciavano.

– Ci sono i letti al cinquantesimo, li avvisiamo.
– C’è un cinquantesimo piano…?, chiesero loro ricomponendosi.
– Sì. Però se trovate una stanza chiusa, non insistete.

Al trentaquattresimo stavano ancora finendo di costruire, calcinacci ovunque e tutti i muri sfondati, per rifare la partizione del piano. Pure le finestre mancavano: erano ancora fessure nel cemento armato. Sbirciando da una di loro, notammo che l’altro pezzo della villa, quello sull’altra collina, era di stile completamente diverso dal pezzo dove eravamo noi.

– Tutta pietra. Ma cosa aveva in testa Egidio.
– Ma magari lui l’ha comprata che era già così.
– Il cellulare prende qui?
– No.

Al ventinovesimo piano c’era il bar a muro (ho contato duecentotrenta bottiglie, disposte secondo l’ordine dei colori nel pantone) e un lounge con quattro caminetti, una cinquantina tra divani e poltrone, e il parquet con l’aspirapolvere automatico che saettava da un punto all’altro. Cominciavamo a disperarci. Se non che al venticinquesimo piano le porte si aprono su un tizio che Alice saluta entusiasta come ‘Egidio’.

– Abbiamo portato anche Sandro, Sandro questo è Egidio, Egidio Sandro.
– Ciao.
– Ciao.

A questo piano c’è una specie di tavernetta che poi salta fuori che è ‘il’ posto dove c’è la festa, gli altri piani – dice Egidio – non li conosce bene e preferisce non entrarci.

– Quanti siamo?, chiede Raffaele.
– Ho invitato tutti i followers che ho, quindi sui ventimila, hanno dato la conferma in sette ottomila e credo siano arrivati tutti, comunque buona parte sono giù in giardino, il resto sono qui a questo piano.

– Sandro ma che posto pazzesco, fa Alice, ed Egidio mettendole una mano sulla chiappa destra la conduce con sé. Raffaele e Dario me li perdo subito perché conoscono a loro volta altra gente. Faccio fatica a muovermi perché c’è ressa. Intuisco che se non trovo una soluzione subito sono spacciato. Intravedo sul bancone del bar una bottiglia di frizzantino piena, fresca di frigo. Me ne impossesso e con garbo me la scolo.

Dopo è tutto incredibilmente più divertente. Ciondolo qui e là, attardandomi a seguire le conversazioni che mi arrivano per caso all’orecchio:

– Sono qui da due giorni.
– Io da una settimana.
– Ah ma quindi è cominciata il 25.
– In realtà il 26, io ero qui già da prima.
– Ah ma quindi conosci Egidio.
– Chi?
– Ragazzi non potete capire, ci sta un piano sopra dove ci sono solo letti.
– Ma siete stati anche voi al diciannovesimo?
– No, cosa c’è?
– C’è un bagno? Sto male.
– Oddio ma quello va a quattro zampe.
– Che cazzo vuoi, bevo da sei ore.
– Oddio scusa parlavo di te ma non con te.
– Ho capito, però ti ho sentito lo stesso.
– C’è un bagno?
– NH7rse da quella parte.
– No quello è il magazzino, ci sta una cassa di rosé.
Una? Ci nuoterei, in quel rosé, ci puoi allagare la stanza.
– Egidio io me lo sono fatta, credo due anni fa.
– Ma dai! Anche io me lo sono fatto!
– Quindi è come se io e te ci fossimo fatti?
– P9KL^^
– J
– Non credo, sai
– COSA?
– HO DETTO CHE NON CREDO
– LA VULIMM FERNI CO LA MUSIC
– 8UIG%$sa dici
– A BUCCHIN E MAMMT

In questa specie di bazar di conversazioni, mi cominciavano ad arrivare alle orecchie parole strane, che a tutta prima non capivo.

– Non pensavo che sarebbe suc7YYFGX, però 9
– Anche 8
– HHHHHHHHH
– H.

E se stavo attento, ne sentivo anche di più. Lì per lì ho pensato fossero parole di una lingua straniera: ma eravamo tutti italiani. Forse era un problema mio di udito? Ma la musica non era così assordante, e del resto le altre parole, quelle normali, le sentivo benissimo.

– Ma tu hai votato poi per il referendum?
– Diversamente sì.

Mi sono avvicinato alla tipa che aveva detto HHHHHHHH, chiedendole:

– Scusa, non ci conosciamo, ma non ho capito bene che cos’hai detto.
– Ma tu chi sei?
– Sandro, ciao piacere, senti, non voglio essere invadente, ma ti ho sentito dire prima HHHHHHHH e non capivo –
– Non ho mai detto HHHHHHH, cosa vuol dire HHHHHHHH
– Eppure io ho sentito…

E mi sono bloccato, perché a pensarci bene non sapevo mica se lo avevo pronunciato correttamente.

– Non so cosa 89UJXCF&/H, anzi 999 e se per favore

L’ho guardata. Aveva di nuovo detto quelle cose strane.

– SDF.

E si è voltata, sdegnosa. Un suo amico l’aveva raggiunta.

– Ma non mi senti quando ti chiamo?
– Perché, mi hai chiamato?

Ho fatto per seguirla. Stava con un crocchio di amici suoi.

– Dov’è l’uscita?
– L’ascensore è lì.
– Ma a che piano?
– 89H&&&Z

Uh, mi son detto, guarda te che strano: sono tutti quelli che finora hanno parlato in quella lingua strana. Ma vedi che fanno gruppo. Coincidenze?

– Ah è bloccato?
– C’è uno che sta salendo ora.
– (
– +à
– E vabbè, un po’ di pazienza.
– Quanta ne 6&§*

Mi son sentito tirare la camicia; erano Marco e Sara.

– Ciao. Ma non stavate facendo cosacce?
– Ma quale sesso, io sono impotente per quell’operazione.
– E io ho sempre odiato essere toccata.
– Ci siamo calati un funghetto. Ora vorremmo andare al cesso ma non c’è nemmeno un bagno cristoddio.
– Quarantatreesimo piano.
– Grazie!

Volano verso l’ascensore e se ne impossessano, doppiando senza misericordia la tipa delle parole strane e i suoi amici, che si fermano a braccia conserte aspettando che l’ascensore torni di nuovo disponibile. Con discrezione, origlio.

– XZàù°
– °°°°°
– Veramente.
– ò?
– *^B7HHH
– LKrse potremmo riparlarn
– YUY
– OYndo cazzo si sblocca questo 6666

Finalmente l’ascensore si apre: entrano e ci scompaiono dentro. Preso ormai da un’insaziabile curiosità, guardo dove si fermano: quarantesimo piano. Richiamo subito l’ascensore e saltellando per l’ansia attendo che le porte si aprano al quarantesimo piano. Per mia fortuna i miei nuovi amici non si muovono a passo di carica: quando le porte si aprono su un lungo corridoio sgombro, li vedo ancora in lontananza mentre svoltano un angolo. Appiattendomi al muro, li seguo cercando di non fare troppo chiasso. Svolto anche io l’angolo. Il corridoio continua e loro sembra che sappiano esattamente dove stanno andando. Ad un certo punto le luci si spengono. Avvolto nella tenebra, che tutto sommato mi favorisce, li seguo usando le loro voci, perché francamente non capisco più niente di quello che si dicono, è tutto un HHHHHH e un 78JH e un inv. 96 recto. Anche se – per quel poco che so interpretare il tono di voce del mio fratello uomo – mi pare che siano… non so, spaventati?
I miei nuovi amici continuano a camminare fino ad un portone, che aprono, illuminando il corridoio con la luce del tramonto. 
Il portone conduce direttamente al ponte coperto (le pareti sono di vetro azzurro) che collega l’edificio dove eravamo, sulla cima della prima collina, a quello sulla cima della seconda, quello tutto in pietra che pare uscito da non so che incubo celtico. Loro, gli amici, lo imboccano subito. Io sono rimasto per un po’ dietro al portone, nel buio, perché temevo che con la luce e il casino che farei attraversando il ponte, mi avrebbero visto. Quando mi sono reso conto che avevano finito di attraversare ed erano spariti dalla porta alla fine del ponte, ecco che corro a perdifiato e raggiungo anch’io quel punto, senza far caso al sole che tramonta, alla nebbia sul fondo dell’abisso e al fiume là in basso che non si vede più. Apro la porta.
Non sono assolutamente preparato a quello che mi aspettava. Sotto di me, sopra di me, davanti a me, l’unica cosa che vedo sono scale. Lunghe catene di scale ripidissime. Ce ne sono almeno una decina, inserite nel grande rettangolo formato dalle pareti dell’edificio, ciascuna separata dalle altre da mura di pietra grigia. Per fortuna di luce, per ora, ce n’è: le pareti, sia esterne che interne, sono attraversate ogni due o tre metri da gentili bifore e rosoni. Ma non vedo luci elettriche, e che succederà quando sarà notte?
Intanto io mi sono completamente perso i miei nuovi amici. Dove saranno? Non resta che andarli a cercare. Ma quale serie di scale prendere? È anche vero che vanno tutte nella stessa direzione: o in su, o in giù. Ne prendo una a caso e decido di salire. Alla fine sono più vicino alla cima che al fondo, e a scendere si soffre meno.
Via via che salgo, mi rendo conto che lo spazio a mia disposizione si restringe. Le bifore si trasformano in feritoie. La scala è sempre più ripida e mi trovo a salire carponi, la testa attaccata ai gradini per non sbattere sul soffitto. Arrivato verso la fine, dove credo ci sia il tetto, mi trovo in un vicolo cieco – più in su non si sale – completamente incastrato in una strettoia, come chiuso in un utero di pietra fredda. È quasi completamente buio, tranne per una feritoia alla mia destra. Faticosamente volto il testone e sbircio. Ma, sorpresa! Ecco uno dei miei nuovi amici, più o meno nella mia stessa posizione. E anche lui parla ad una feritoia alla sua destra. Forse sono tutti qui anche loro? Fatto sta che li sento benissimo fare il loro solito:

– HHHHH
– 7GHriutilizz
– il mistero treLLLç°^S
– òàò
– 999ghest proprio non potevaaaaaaa
– sempre che *
– ma pure “

Sembravano agitatissimi, come se si dovessero dire chissà che cosa. Vero è che se anche non fossi riuscito a sentire benissimo quello che si dicevano, avrebbe fatto poca differenza, perché non capivo una mazza. Poi venne quell’istante, quell’istante mortale, in cui non solo la vita di uno, ma la vita di altri milioni cambia direzione nella corrente del tempo – quell’istante in cui uno di loro, forse per sentirsi più libero da un peso che aveva, forse perché si credeva tra amici fidati, disse le parole proibite, le parole finali; e le sentii anch’io.
Non chiedetemi di riportarle qui. A parte che è poco rispettoso, e poi comunque non avrebbe senso farlo – per ragioni che vi saranno chiare in séguito. Fatto sta che una volta sentite quelle parole avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, magari nel fuoco o in una nuvola di fumo, magari colpito da un fulmine. Era veramente così? Era davvero quello il punto? Fuori dalle mura di pietra ho sentito la voce del tuono, chiara e letale. Pochissimo mi consolava il fatto che adesso capivo perfettamente cosa si dicessero i miei nuovi amici:

– Ma cos’hai fatto, hai usato le parole ultime!
– Ma le usiamo sempre.
– E allora perché fuori c’è stato un tuono?
– Oddio il terremoto. Sentite?
– Si muove tutto.
– Mi sento soffocare, ho paura.
– Qualcuno ci ha sentiti.
– COME!
– Sì, per forza. Riflettete. Finora non abbiamo mai avuto un problema a parlare qui. Oggi sì: perché? Perché non siamo soli. Qualcuno che non è uno di noi ci ha ascoltati e ha capito.
– E allora?
– Come, ‘allora’? Allora non era nei patti, non doveva succedere. Se qualcuno sente quelle parole, poi capisce. E siamo tutti fottuti.
– Scusate, mi venne da dire in quel momento – credo sia colpa mia.

Silenzio. Le mie parole rimbombavano negli spazi compressi sotto e intorno a me. Eravamo ormai avvolti nelle tenebre. Sentivo l’edificio preso da un sottile tremore. La pietra intorno a me si era fatta mobile, fremente.

– E questo chi era?
– Non lo so.
– Lo so io. Lo riconosco. È lo stronzo che prima è venuto a chiedermi cosa stessi dicendo.
– Ma che ci fa qui?
– Vi ho seguiti, risposi io. Il tizio nella scala accanto alla mia voltò la faccia faticosamente, guardò nella feritoia alla sua sinistra – che era la stessa che io avevo alla mia destra – e ci scambiammo un lungo sguardo. C’era l’orrore nei suoi occhi.
– L’ho trovato, disse. – È qui.
– Non ci posso credere.
– Oddio oddio trema tutto.
– No no no no.

Qualcuno, lontano da me, stava piangendo. Poi tutti, freneticamente, cominciarono ad arretrare, ferendosi e andando a sbattere nell’angusta vagina di pietra, cercando di uscire in fretta da un luogo dove erano entrati con fatica e cautela. Io, preso da una depressione incontrollabile – meritavo di morire sul posto – non mi affannai allo stesso modo. Che fretta c’era? Eravamo condannati. Fuori cominciava il temporale. Tornato all’altezza del ponte di pietra, li vidi correre a perdifiato, già sull’altra sponda. Ma che importava ormai…? Percorsi il ponte sull’abisso con la pioggia che picchiettava furibonda sui vetri, il fulmine che ogni tanto illuminava il precipizio a giorno. Rieccomi nell’altro edificio, al quarantesimo piano; il corridoio; l’ascensore. Ho guardato il numeretto luminoso sulla centralina: erano scesi al piano terra. Chiaro, ho pensato – cercano di scappare. Io premo il ventinovesimo, magari ritrovo gli amici, è carino se muoio con gli amici anziché da solo. La festa al ventinovesimo è sempre uguale, anzi più fitta perché siccome piove la gente è rientrata dentro dal fianco della collina. Mi viene incontro Egidio:

– Che cazzo hai detto a Franca e agli altri? Stanno andando via in macchina senza manco salutare. Mi hanno mandato un messaggio orribile.
– Ho ascoltato le parole ultime per sbaglio.
– NO, urla Egidio, e scappa in ascensore abbandonando la festa. Alice, Dario e Raffaele mi avvicinano perplessi.
– Ma che è successo, Sandro?
– Mi sa che ho fatto un guaio.
– Cioè?
– Ma Marco e Sara?
– Lascia stare, si sono fatti un altro funghetto e ora stanno lì che vedono i rinoceronti a mezz’aria. Li portiamo in pronto soccorso fra un po’. Ma tu?
– Usciamo di qui. Fra poco crollerà tutto.
– Eh?
– Fidatevi. Prendiamo Marco e Sara. Magari con l’occasione li portiamo al pronto soccorso subito, che l’ultima volta sono finiti in coma.

Una scossa di terremoto fa improvvisamente cadere a terra e rompere molte delle bottiglie vuote in sala. Circuiti elettrici saltano. Dura pochi secondi, abbastanza per interrompere la festa. Si cerca Egidio, ma non lo si trova. Intanto noi abbiamo guadagnato l’ascensore, io con Sara sulla spalla – Marco lo tiene Raffaele – e stiamo scendendo.

– Non so quanto sia furbo usare l’ascensore se c’è un terremoto, fa Dario.
– Quello è il minore dei nostri problemi, rispondo.
– Ma si può sapere che è successo, Sandro?

Usciamo dall’ascensore, arriviamo al portone principale, eccoci fuori dal cancello. Molte macchine stanno partendo. Improvvisamente, con la pioggia che infuria, riparte il terremoto. All’orizzonte si alza un lucore biancastro, informe – le cime delle colline sembrano traballare sotto la pressione di una forza ignota, che da sotto preme per uscire. In lontananza si leva a poco a poco un vortice di nubi.

– Dio che sfacelo. Ma cos’è.
– Ho capito il temporale agostano, ma qui si esagera.

– A parte che è aprile.
– No ragazzi, è la fine del mondo.
– Nel senso che sei contento?
– No, è letteralmente la fine del mondo.

Il temporale sembra calare. Il terremoto continua. Il vortice in lontananza sembra splendere al suo interno, come se contenesse fuoco.

– Voi sapete, spiego agli amici – che nel mondo esiste da sempre un mistero tremendo, un fatto arcano che spiega il mondo nella sua interezza e risponde a ogni domanda.
– Non lo sapevo.
– Nemmeno io.
– Dov’è la nostra macchina? Marco pesa.
– Dai Raffaele, fallo finire.
– In realtà c’è chi conosce questo mistero tremendo. Ti devono autorizzare prima, c’è una procedura complicata, però se sei ammesso ti dicono le parole ultime e tu capisci. Nessuno che non sia autorizzato può sentire le parole ultime. Uno che le sa comincia a parlare una lingua che è a metà tra quella nostra e quella del mistero tremendo, che è incomprensibile se non sai le parole ultime.
– Tipo quei quattro scemi che dicevano HHHHHH e *)=?
– Bravo Dario, quelli.

Intanto eravamo arrivati alla macchina. Abbiamo messo delicatamente Marco e Sara sul retro. Respiravano ancora.

– Io però, che volevo a tutti i costi origliare la conversazione, mi sono infilato nel posto dove di solito si parlano, e ho sentito le parole ultime.
– E questo è male?
– Eh sì perché non ero autorizzato. Adesso so la loro lingua, ma non era previsto che la sapessi. La conseguenza è che adesso so il mistero tremendo che giace sotto il mondo, e quindi il mondo viene distrutto.

Facciamo per metterci seduti e partire, ma c’è un ingorgo all’uscita del parco. Stanno fuggendo tutti. Il vortice di fuoco comincia a illuminare il fianco della collina. Le chiome altissime degli abeti ondeggiano come elastici tirati e mollati di colpo. I fulmini cominciano a percuotere la villa di Egidio. 

– Chissà dov’è Egidio, tra parentesi.
– Starà scappando.
– Ma gli servirà?
– Ovviamente no. Sta finendo il mondo, cosa vuoi scappare.
– Oddio Sandro, ma anche per noi è finita?
– Non sono sicurissimo che finirà proprio per tutti, magari qualcuno sopravvive, non so poi di cosa vivrà. Accidenti a me, non dovevo ascoltare quelle parole.
– Sandro, ma è orribile.
– Ma col fatto che ora conosci il mistero tremendo, non potresti inventarti qualcosa per impedire che finisca tutto?

Il lucore biancastro all’orizzonte si è allargato al tutto il cielo.

– Eh no. Proprio perché lo conosco.
– Vabbè Sa’, già che ci siamo, ce lo puoi spiegare?

Li guardo. Sono attentissimi. Faccio per aprire la bocca e cominciare a dire il mistero. Resto lì come un ebete.

– Embè?
– Non ci riesco. Non riesco a dirlo. Se non lo dico, lo so. Ma se provo a spiegarlo mi mancano le parole. Mi va via l’immagine mentre parlo. Che imbarazzo. Eppure se non devo dirlo lo capisco benissimo, pure troppo. Guardate, mi viene fatto di usare un concetto tipo 98JK+èé^S£, o anòòççç8),JM*°hàἀλσηῖδ
– Frena Sandro, frena, non capiamo niente.
– Parli come quei quattro scemi.
– Sentite, finito per finito: se vi dico le parole ultime capite anche voi. E vaffanculo al resto. Allora le parole sono:

e così gliele ho dette, e siamo qui chiusi in macchina, con Marco e Sara che russano, Hai messo incinta una scema di Truppi sullo stereo, che aspettiamo la fine del mondo.

Giulio Iovine, nato a Bologna il 10/07/1987. Di lavoro studia manoscritti antichi e insegna all’università. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da dicembre ricercatore a tempo determinato a Bologna. Ha da sempre il sogno di scrivere (romanzi, racconti, teatro).