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Arbre magique

di Simone Redaelli

Ogni sera ampliavamo il nostro raggio d’azione. C’erano alcuni luoghi che prediligevamo e nei quali sostavamo sempre, ma solo perché là ce n’erano di più.
Iniziò tutto una sera di novembre, un venerdì. Quel venerdì ci eravamo ritrovati in tre scemi con nessuna mente femminile a partorire idee brillanti e in discoteca senza donne non ci facevano mai entrare quei bastardi. E poi il solito bar era chiuso. Allora a uno di noi era venuta l’idea.

«Dai cazzo, muoviti, è mezzanotte. Gli altri ci staranno già aspettando.» Era sbucato da dietro l’angolo a bordo di una Clio grigio metallizzato, di quelle prive del servosterzo ma con i cerchi in lega. L’aveva piantata per metà sul marciapiede antistante la casa dei miei e si era sporto dal finestrino aperto del guidatore.
«Poi mi devi spiegare che diavolo stavi combinando. Eri tu quello in bagno?» La finestra del cesso dava sul giardinetto in stile americano e dalla strada si potevano intuire alcune cose. «E non dirmi che ti stavi solo pettinando o qualcosa del genere, perché ci hai messo un’ora, cazzo. Ho dovuto suonare il clacson ben due volte per farti muovere quelle stramaledette chiappe. Che stavi facendo eh, ti truccavi?» Udivo il suo monologo solo in lontananza. 
Raggiunta l’automobile, salii dietro perché il posto di fianco a lui era riservato a un altro. «Guida e stai zitto, Cristo Santo. Vuoi svegliare i vicini? Guarda che la gente qua ti taglia le gomme.» Bastavano qualche frase ad effetto e un paio di bestemmie per ammansirlo. Il mio amico era proprio il Charlie per eccellenza: un parla-parla. In tutta risposta il suo piede titubò sul pedale della frizione, facendo sobbalzare l’automobile al momento della ripartenza. «Questi rottami del cazzo» disse, ma non terminò la frase.
Trascorsi il tragitto da Cologno Monzese a Milano fissando un Arbre Magique di un color giallo limone con annessa una tartarughina in legno. La testa del rettile era in qualche modo mobile e ad ogni minimo intervento del mio amico sui pedali iniziava mostruosamente a oscillare, dicendomi prima che no, non era il caso che lo facessimo e poi al contrario che sì, andava fatto.
In viale Ortles tirammo su il terzo della banda. La strada era ampia e i capannoni si nascondevano dietro una fitta nebbia. Pareva un mattino di provincia incollato sopra una notte cittadina.
«Ehi ragazzi, ma che avete combinato qua dentro? C’è odore di – » 
«Invece di blaterare, comincia a ripassare la tua parte. Non che sia poi così difficile, ma con te non si sa mai.» Eppure aveva ragione. Il chiuso della Clio non sapeva né di scomparti in gomma cotti dall’umidità estiva né di tessuto sintetico imbottito di polvere. Il mio amico al volante diceva di essersene scopate a migliaia qua dentro. A mio parere ci si faceva solo le seghe. Al solo pensiero mi venne il voltastomaco, che mi costrinse a ruotare bruscamente la manopola del finestrino. «Oh oh dico, ma sei scemo? Fa un freddo cane là fuori» ringhiò quello al volante. «Amico, qua dietro invece non si respira.» Si lamentò l’ultimo arrivato. «Ha ragione lui, tu pensa a guidare.» Spesi i successivi dieci minuti alle prese con un turbinio gelido che mi batteva sulle guance.
Quando mi ridestai, il mio amico alla guida stava inchiodando in prossimità del Plinius. «E fai piano». 

Ricordavo una scritta lampeggiante a colorare l’insegna del cinema, ma doveva essersi fulminata. Al contrario, oltre le porte a vetri dell’ingresso il gabbiotto delle casse era felicemente illuminato. Qualcuno si stava mettendo in coda per acquistare il biglietto dell’ultimo spettacolo.
«Che fine ha fatto il tuo amico, eh?» chiese il guidatore.
«Arriverà, non preoccuparti. Dagli un attimo di tempo.» 
«Sarà meglio per lui. Quel mongolo ci serve.»
«Mongolo!» Rise quello seduto alla mia sinistra.
Ero sceso dall’automobile. «Ei ma dove cazzo vai amico.» Aprii la portiera davanti, quella dal lato opposto al conducente e sedetti a fianco del Charlie. «Senti bello, non abbiamo deciso» e poi in un attimo gli presi la testa. Con la mano sinistra gli afferravo i capelli, mentre con la destra gli piantavo un gancio sotto il costato. Quindi gli premevo la faccia contro il bordo del volante. «Ascoltami bene, figlio di puttana. Lo chiami in quel modo un’altra volta, una volta soltanto e io ti ammazzo. Giuro che lo faccio. Hai capito quello che sto dicendo?» Sopra la mia testa la tartarughina aveva preso ad oscillare un burattiniano   e mi vidi costretto a mollare la presa senza aspettare risposta.
In quel momento da uno dei pochi portoni nei pressi del cinema Plinius usciva un ragazzo. Abitava in viale Abruzzi con il padre e con la nonna da quando aveva memoria. Era nato con un parto d’urgenza e sua madre aveva perso molto sangue. Era morta dandolo alla luce. Il giovanotto non superava il metro e mezzo di statura, aveva due strettissimi occhi a mandorla, un mento eccezionalmente minuto e un naso piatto. Portava qualche chilo di troppo e quando apriva la bocca per parlare, la sua lingua sporgeva all’infuori. 
Poco prima di uscire di casa, la nonna gli aveva dato un bacio sulla fronte, raccomandandogli di stare sempre con gli amici. Il padre invece lo aveva accompagnato alla porta di casa sorridendo, per poi dirgli che lo avrebbe aspettato sveglio. Ora quel ragazzo si stava dirigendo verso una Clio.
«E lasciami Cristo, ma che cazzo ti è preso?» «Sta arrivando, me ne torno sul mio sedile posteriore» tagliai corto.
Il ragazzo dalla statura modesta si arrestò a qualche passo dalla vettura, per poi bussare al mio finestrino. Gli aprii la portiera. «Questo è il mio posto, il mio posto!» Lo disse con una punta sdolcinata d’orgoglio. «Certo bello, certo che è il tuo posto.» «Allora mi siedo.» Mentre io rimontavo dietro, lui si piazzò a fianco del Charlie. 
La macchina si mise in moto e io allungai le mie mani sul viso del nuovo arrivato, dandogli qualche buffetto affettuoso. «Allora bello, dov’è che andiamo adesso?» 
«A puttane, a puttane!» s’agitò quello. 
Con un caldo sorriso sulle labbra, gettai uno sguardo oltre le vetrate d’ingresso del cinema. Una signora in età pensionabile, accompagnata da un bimbetto dalla chioma biondiccia, era in procinto di pagare cinque euro e cinquanta centesimi per una vaschetta di pop-corn dalle ridicole dimensioni.

Simone Redaelli è un biologo, copywriter scientifico e scrittore freelance. È Vice-Direttore di Culturico, sul quale pubblica articoli che spaziano dalla letteratura alla sociologia, dalla filosofia alla scienza.
Dal 2020 è autore di A Sonnet to Freud, un blog per illustrare come la vita dei poeti, dei romanzieri e degli intellettuali possa essere una fonte di ispirazione per comprendere meglio la psiche degli individui e i loro rapporti sociali. 

Per La Seppia ha scritto il racconto Il tavolino