di Davide Ceraso
Il silenzio, a volte, avvicina. O forse è la noia.
Ester dorme, sento il suo respiro sottile come la cartina della sigaretta che tengo tra le dita. Dicono che il virus attacchi i polmoni ma io me ne frego. I miei sono già fottuti da tempo, dal giorno in cui ho compiuto dodici anni e zio Adelmo, buonanima, mi ha fatto fumare insieme a lui. Anche allora le strade erano deserte, Boccadasse si spoglia sempre dei turisti d’inverno.
Il cerino regala un attimo di luce a questo pomeriggio, accende il tabacco e muore soffocato dalla pelle spessa del pollice e dell’indice. Apro la finestra e la brezza carica di salsedine entra a farmi compagnia prima che la allontani con uno sbuffo di fumo. Osservo i carruggi vuoti sotto di me, fiumiciattoli privi della loro solita vita multiforme. Ieri sono sceso fin giù al Porto Vecchio, una landa desolata dove sparuti corridori sembravano fuggire invece che allenarsi e uomini con indosso improbabili mascherine portavano a pisciare il cane. Nessuno voleva le mie sigarette di contrabbando, si allontanavano senza parlare. Poi la polizia mi ha rispedito a casa.
Un metro di distanza. Nessun contatto.
Era così anche prima, cosa credete. Il vento che soffia dal mare indurisce pelle e cuore era solito sospirare il nonno in bottega di fronte allo scheletro di una barca e con una sgorbia in mano, l’odore pungente di pece a fagocitare ossigeno. E le mie molecole, di quel vento teso, devono averne assorbito quantità elevate perché da sempre ho come l’innata capacità di secernere una sostanza tossica che allontana poco alla volta le persone, come veleno di medusa. È successo da ragazzo e da marito. Poi ancora quando sono diventato padre.
Sospiro, scaccio quei pensieri dalla mente, mosche fastidiose che posano le loro zampette sulla cute e trafiggono la carne con schegge di passato. E intanto la sigaretta si è spenta dopo essersi consumata tra i polpastrelli ingialliti dalla nicotina, come la mia vita scivolata via senza che ne riuscissi a trattenere un po’ anche solo nei ricordi.
Ester mi fa sobbalzare, carezza la barba ispida cresciutami irregolare sul viso e poggia il mento sulla mia spalla nuda. Guardiamo in silenzio il muro scrostato della casa davanti, impreziosito da dichiarazioni d’amore dalle lettere sbiadite e vecchi annunci pubblicitari.
Dividiamo letto e spese dal primo giorno di quarantena, dacché hanno chiuso i negozi e la gente si è barricata in casa. Lei ha lasciato un monolocale sulla salita di Vico dei Ragazzi, una stanzetta al piano terra e una finestra con le sbarre di ferro arrugginito. Gli affari vanno male per entrambi, nessuno di questi tempi compra sigarette da sconosciuti e va a puttane. Prima ci salutavamo con un cenno della mano, ora le dita di quelle stesse mani la notte s’intrecciano ma, alla fine di tutto, sono consapevole che il nostro rapporto non funzionerà. Siamo due esseri incapaci di legarsi a lungo, ombre sovrapposte che si distinguono comunque l’una dall’altra, eppure il virus, paradossalmente, ha amplificato il nostro bisogno d’intimità, di rituali condivisi, ha attratto anche noi, troppo simili, mutando in modo precario indole e convinzioni.
«Quanto durerà?»
Ester pronuncia quelle parole in fretta come se avesse letto nella mia mente. Poi precisa.
«La quarantena, intendo…»
Borbotto qualcosa d’incomprensibile, come una pentola colma d’acqua dimenticata sul gas. Lei continua a parlare senza farci caso, seguendo il filo dei suoi pensieri.
«Magari dicono di restare in casa fino a Natale…»
Sorrido e mi volto, siamo uno difronte all’altra. Ester guarda il mondo attraverso occhiali dalle lenti spesse che la fanno assomigliare a un pesce fuori dal suo elemento naturale. Sistema dietro l’orecchio un ciuffo sfuggito dalla crocchia di capelli ramati su cui comincia a intravvedersi una ricrescita grigiastra.
«Vorrà dire che addobberemo l’albero insieme, come una famiglia».
Ester ascolta la mia risposta e serra le labbra screpolate, forse rivede la sua vita scorrere come un film in bianco e nero, il compagno violento e una figlia fuggita troppo presto e chissà per dove. Aggrotta le sopracciglia prima di mettersi a ridere.
«Certo, come no! vieni che ti preparo un caffè».
La seguo in cucina con passi lenti e per un secondo, un secondo soltanto, le nostre ombre sembrano fondersi insieme…
Davide Ceraso (1976) nasce e vive a Cuneo. È laureato in Scienze Forestali e Ambientali. Scrive da qualche anno seduto sulle carrozze dei treni che lo portano per lavoro a Torino o, in questo periodo di quarantena, sul divano accanto alle sue figlie Cloe e Camilla. Ha sceneggiato un fumetto per Libera Piemonte, un suo racconto è contenuto nel libro “Quartieri” – La Feluca Edizioni – mentre altri sono apparsi sulle riviste Crack, Marvin, Voce del Verbo, Smezziamo, Spore, Malgrado le mosche, Neutopia, Rivista Blam e Bomarscé. È di prossima uscita il suo romanzo d’esordio edito da DZ Edizioni.