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Città vuota – Virginia Bernardis

E POI CI SONO LE ANATRE

Anche oggi non c’è nessuno. Solo il respiro della primavera che riempie le piazze, s’insinua lungo le vie e smuove in superficie l’acqua della roggia. Di tanto in tanto allungo lo sguardo per controllare se, per caso, qualcuno compare, ma si tratta sempre di una scarsa manciata di passanti con rettangoli di stoffa al posto delle bocche. Mi chiedo se non sia una di quelle nuove mode passeggere, mentre osservo quei pochi avanzare, incerti o frettolosi, straniti o rassegnati. Il loro incedere è strano, le espressioni adombrate, i gesti limitati. A volte li ferma qualcuno e loro, con le facce allarmate, esibiscono un foglio di carta, brandendolo come un fragile prolungamento delle loro braccia, quasi costituisse il loro lasciapassare per la vita. Da qualche tempo ormai non stanno più agglomerati ai tavolini dei bar, ma solo in lunghe file fuori dai supermercati, formando cortei di umani distanziati. Mi sembrano rigidi manichini esposti in una vetrina a cielo aperto, dimentichi tutt’a un tratto della capacità di stare vicini. Qualche passante sporadico c’è, sui marciapiedi vicini alle case, in posta, in banca, ma nessuno si intrattiene più con me. Ognuno continua ormai da settimane a creare il vuoto attorno a sé, e a me non succede più niente. L’unica cosa che noto, oltre alla drastica riduzione della mia solita compagnia, è la straordinaria moltiplicazione di cani.

E poi ci sono le anatre. Le vedo atteggiarsi come ricche signore nelle loro pellicce di piume mentre, uscite allo scoperto con una piccola coda di pulcini, sfilano lungo le mie strade deserte. Hanno forse ritrovato un coraggio che appartiene alla natura, l’unica che continua a comportarsi come sempre: restano i batuffoli rosa sui rami degli alberi, i cinguettii rinati dopo il freddo, la luce che giunge gentile a scaldare i miei angoli più pallidi; tutto continua ad andare avanti. Sono loro, le persone, ad avermi abbandonata.

È surreale ritrovarmi così vuota. Mi sento isolata e sola senza di loro, loro che percorrendomi tutta ogni giorno trasportavano il sangue nelle mie arterie. Non ricordo più quando è stata l’ultima volta in cui ho ricevuto una carezza umana. Ora posso contare solo sui rami che mi sfiorano, su timidi passi occasionali e sul ricordo delle conversazioni che mi divertivo ad ascoltare mentre loro stavano qui e là, su e giù, lì e altrove ancora, scegliendo di volta in volta il mio angolo migliore.

Adesso è diverso: se prima erano loro a perdersi in me, ora sono io che mi sento persa. Ci sono momenti in cui mi sembra di non poter respirare, rinchiusa come sono qui fuori. In questi giorni strani, incastrati in una parentesi a cui non trovo una definizione, in questa stasi surreale che mi confonde, li intravedo soltanto dalle finestre delle case di cui devo continuare a sostenere le fondamenta divenute più pesanti, ora che per qualche ragione sono tutti nascosti dentro. Qualcuno però mi guarda ancora dal suo riquadro di vetro e sembra che si sia messo lì apposta per ricordarmi che esisto ancora. Esiste la salita del mio fianco destro, una curva sospesa tra il porfido e i balconi delle case; il tombino a forma di ombelico, che traballa quando viene calpestato, al di sotto del quale si trova la conca del mio ventre tra liquidi e oscurità; il portoncino di una villa che precede la mia bocca e che al suo cigolare si schiude su un giardino con qualche cespuglio di fiori e sassi bianchi come denti; le tende sfrangiate di una finestra, intrecciate con fili di capelli spuntati che ora fanno il solletico all’intonaco vaniglia della mia fronte; il tubo metallico della grondaia, la gola con cui pronuncio parole fatte di condensa e di saliva; l’orologio del campanile, il mio grande occhio con cui vigilo su quello che accade, mentre la pupilla impartisce ordini precisi alle lancette e il ritmo dei loro secondi è quello delle mie palpebre che sbattono veloci per evitare di arrugginire il loro ingranaggio, e per ricordarmi che questo momento in cui nessuno mi bacia più non durerà in eterno.

C’è dell’altro, però. La mia testa ora non è più trafitta dalle stilettate dell’emicrania, perché io resto zitta e in me tutto tace. Sono più accogliente per gli altri figli della natura e ispiro più fiducia anche al cielo il cui azzurro, solitamente offuscato da un umore grigio, mi sorride più intensamente. Si allarga una pace edenica quasi inopportuna che mi riporta a racconti sui tempi passati, in cui questa quiete che ora grida più del silenzio era considerata normale.

Per questo mi accorgo che, tutto sommato, io vivo lo stesso; i mali di cui vengo intaccata sono altri ― la patina che come un parassita si attacca sulle mie facciate, la sporcizia che viene lasciata su di me quasi potessi deglutirla in un semplice sorso, le crepe che s’inerpicano sulla mia pelle rugosa e cadente che a volte si scrosta a pezzi nell’indifferenza di chi sembra non accorgersene. Ho anche io le mie sbucciature, i cedimenti e i terremoti propri di ogni anima, ma prima c’era sempre qualcuno che faceva scorrere le dita su di me o mi massaggiava con i suoi passi. Il mio baricentro, poi, piaceva sempre a tutti: molti si incontravano là e mi parlavano, mi indicavano, mi fotografavano, e, specchiandosi nelle fontane, facevano riflettere anche me, che riscoprivo così, sentendomi amata, alcuni miei aspetti di cui avevo distrattamente scordato la bellezza.

La verità è che mi mancano, con la loro umanità ammaccata e stridente, piena di difetti, di disattenzioni nei miei confronti, con i loro caratteri che a volte stento a comprendere, con la loro voglia divoratrice di saltarmi addosso, corrermi addosso, dipingermi addosso, scuotermi abbracciarmi sputarmi ferirmi strattonarmi festeggiarmi brindarmi urlarmi piangermi cullarmi, sussurrarmi, sognarmi, scrivermi. Toccarmi. Vivermi, addosso.

Ecco: ora ne vedo uno, uno di loro affacciato alla finestra, e un altro che si sporge dal balcone. Mi sembrano impegnati in quelle attese crepitanti che precedono sempre l’inizio di qualcosa. E infatti adesso hanno cominciato a cantare una melodia che tutti sembrano conoscere e che si diffonde nel mio corpo facendomi smuovere tutta, io che rimango sempre e comunque statica nell’illusione della mia solida fermezza. E invece è così che me lo fanno scoprire: anche io, che mi ergo apparentemente irremovibile, nascondendo nelle pieghe più appartate di me la mia fragilità, posso voler imparare a ballare. Devo trovare una maniera per dirlo anche a loro ― penso, mentre li sento cantare ―, per far capire che, in qualche modo, io e la mia voglia di stringere tutto non ci sposteremo di qui: resteremo invece ancorate alle curve sinuose di me stessa, la loro città, pronta un giorno a sedurli di nuovo.

Classe 1999, Virginia Bernardis, si è diplomata al Liceo classico J. Stellini di Udine, durante il quale ha scritto per il giornale scolastico Asteriskos e ha vinto con un suo elaborato il premio Sergio Sarti 2018 di filosofia. Dopo aver superato il concorso di ammissione, è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine, dove frequenta attualmente la facoltà di Lettere. Ha fatto parte della redazione del CSS Teatro stabile di innovazione del FVG e sta vivendo quest’anno la sua prima esperienza editoriale in vista della pubblicazione di un suo libro.“La scrittura mi accompagna da sempre. Negli anni sto accumulando numerosi quaderni dove annoto frasi, riflessioni ed esperimenti di scrittura. Mi trovo a mio agio tra le parole, amo la letteratura e spero di riuscire a fare delle mie passioni anche il mio futuro”. .