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I pilastri della solitudine – Parte 2

Illustrazione di Oscar Singarella

I pilastri della solitudine
Storie di una inquietudine strutturale

di Rocco Cannarsa

Luigi

Luigi è ipocondriaco. Il più grande terrore che relega alla mortalità del corpo che lo rende umano è la morte. È il libero arbitrio a renderlo tale: ipocondriaco come frutto di una scelta volontaria, responsabile, preventiva. Luigi è al contempo un uomo coi piedi per terra, e con questo poco c’entra il suo febbrile attaccamento alla vita. È un uomo coi piedi per terra, per cui accorgendosi di una eccessiva e quasi malsana e controproducente, preoccupata, angoscia, richiama a sé la razionalità e respira. Luigi è cattolico, e prega continuamente, fedelmente convinto che la supplica, Onnipotente, possa redimerlo dal peccato che la sua concupiscenza incarna. Negli ultimi giorni la nevrastenia lo acceca. Luigi è tranquillo, sa che non è altro che il terrore a martellargli la tempia. Guarda fuori dalla finestra. Non un essere umano. La strada che vede deserta, illuminata dal sole, senza il traffico che la contraddistingueva da anni, con gli alberi mossi da un soffio leggero e pungente, gli sembra soltanto il frutto di un paradisiaco pensiero. Sa che i controlli della polizia, dei carabinieri, dei militari sono continui, così le persone si sentono obbligate alla responsabilità della salute del proprio corpo, i più magnanimi anche di quelli di altri ego, fuochi, punti di fuga del cosmo. Luigi sente la temperatura crescere, la percepisce, lenta e profonda, la vede depositarsi nel petto, poi salire, salire, calma, nella fronte. Luigi brucia. Brucia e non respira. Luigi non respira. Luigi boccheggia. Luigi in apnea. Luigi spalanca gli occhi, suda, in agonia. Non sente le gambe. Luigi agonizzante non sente le gambe e siede sul divano. Luigi si attacca alla ragione. La richiama a sé, riacquisisce il controllo del proprio io e respira. Respira, e negando in aria, negando nell’aere inconscio sospira. Prende una sigaretta e, abbracciando un cuscino, l’accende. Pensa alla propria, materica, povertà. Lo fa con un sorriso disinteressato: l’unica ricchezza cui Luigi aspiri è quella dello spirito. Non esce di casa da giorni. Teme finanche l’andare a fare la spesa. Non vuole che la polizia lo fermi, non vuole possa anche esserci il minimo rischio possano avvicinarsi più del dovuto. Luigi ha smesso di lavorare. I clienti non fanno che chiamarlo, ma, dopo aver lasciato che il telefono squillasse per giorni, ha deciso fermamente di spegnerlo. Luigi per lavoro spaccia cocaina. Implora il perdono ogni santo giorno per la dannazione che ha scelto. Nella sua vita non ha fatto che questo, fin da giovane. Ed è bravo nel suo lavoro, molto bravo. Si è cavato fuori da situazioni inenarrabili, sarebbe paradossalmente il primo a tremare, per il timore della reverenza. Luigi fa l’ultimo tiro e spegne la sigaretta nel posacenere. Respira, si alza e guarda fuori.

Marco

La mattina della partenza era iniziata con il solito, frettoloso, appallottolarsi dei panni in valigia e la corsa sfrenata, senza il minimo tempo di salutare Ilaria a dovere. La madre aveva visto nel suo arrivo, poche ore prima del caos, un segno divino di una buona sorte. Marco aveva iniziato a percepire la condanna. Avrebbe dovuto trascorrere lì solo pochi giorni, se lo ripeteva spesso. Avrebbe trascorso lì solo pochi giorni per poi ripartire. Marco reputa quello di casa un concetto fuorviante negli ultimi anni. Il viaggio puntualmente lo snerva, lo culla di aggressività. Marco è conscio della propria incapacità di reprimere la rabbia, stimolata inoltre da un viaggio di sei ore coi gomiti nel ventre di un obeso sudato che occupa la metà del suo sedile, oltre che il proprio per intero, e neonati urlanti con le relative madri insonni e frustrate che pompano ninna-nanne rendendo il vagone un rave. Arrivato alla stazione ha voglia di fumare, ché lungo il viaggio è stato impossibile. Ma niente sigarette, perché al binario trova sua madre, che abbraccia, stringe, cui si avvinghia con calorosa cura. Marco e Ilaria quando si salutavano di solito si sentivano in maniera ossessiva, illudendosi di lenire la mancanza, il che si rivela poi soltanto un motivo in più per inasprire il rapporto nella crescente distanza. I genitori considerano il suo desiderio di ripartire la sua condanna a morte, o meglio al suicidio. La sorella tace, e si promette che davanti al binario non lo abbraccerà. Non vuole essere ferita dalla sua perenne fuga, non di nuovo, e trova in questo contesto la possibilità di una sua tenerezza forzata, che, malgrado il bene che Marco le vuole, non avrà mai. Lui e Ilaria al telefono si raccontano la giornata, che ornano di parole dolci, che si evolvono rapidamente in codici e sospiri piccanti, quasi volgari. Quando Marco viene legato con il ferreo giogo della ragione a non abbandonare questa sfocata idea di casa, vorrebbe percuotersi. Sfogare su di sé la colpa di essere vittima del proprio pensiero. E contempla per ore il dilaniarsi del vuoto. Le telefonate con Ilaria si accorciano, fino a spegnersi in una fioca promessa di complice separazione. Marco trascorre il proprio tempo tra caffè e veglie funebri alla voglia di vivere. Panico e crisi. Marco piange l’indeterminatezza di un silenzioso martirio.

Rocco Cannarsa nasce a Termoli (Cb) il 29 Marzo 2000. Vive a Firenze dove frequenta la facoltà di Filosofia. Pubblica nel 2019 il racconto “Un frutto che cade” all’interno dell’antologia “Ricordi” (Mauro Pagliai Editore). Dal 2018 collabora con la rivista fiorentina “Streetbook Magazine”.

Per La Seppia ha scritto il racconto Voci.
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