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I pilastri della solitudine

Illustrazione di Oscar Singarella

I pilastri della solitudine
Storie di una inquietudine strutturale

di Rocco Cannarsa

Maria

Maria è una vecchia, e abita in un quartiere del centro. Sebbene di un piccolo paesino del sud, vivere in un palazzo storico del centro designa un benessere sociale ed economico del quale poter fare la propria forza. Deve tutto a suo marito, un piccolo commerciante, che con il denaro che ai tempi scorreva facile era riuscito a farle avere l’appartamento già a vent’anni. Fa la casalinga, e lo fa per lavoro. La sua esistenza aveva attraversato quel periodo storico in cui la donna aveva abbandonato il mero ruolo di dolce metà in cui era stata da sempre relegata e aveva potuto per la prima volta permettersi di decidere della propria vita, quando per Maria questa era stata da tempo segnata. La donna in carriera è, secondo la sua incommutabile opinione, indegna della femminilità che incarna per nascita, una figura incomprensibile e perciò più criticabile, un po’ per invidia, un po’ per convinzione tradizionalmente inculcatale dall’impronta culturale della famiglia. Maria fa la casalinga per lavoro, e questo vuol dire che la sua intera esistenza fa da cornice al mantenimento della casa. E lo fa a tempo pieno, senza timbrare alcun cartellino. Le piaghe degli anni e le fatiche del proprio ruolo le hanno donato una certa, austera, regalità, che sa sfoggiare al meglio nel tragitto domenicale verso l’autocertificazione di fede. Maria ha delle amiche. Sono per lo più le mogli sui settanta che abitano gli altri appartamenti del palazzo, e il rapporto con loro si è tradotto negli ultimi decenni in dialoghi urlati e mal compresi tra un balcone e l’altro, o nella condivisione casuale dei tragitti verso la chiesa o il supermercato. Ha due figli e due nipoti, ormai cresciuti, che sono stati la prova più dura del suo lavoro. Sono sparsi per “il Nord” e la casa è silenziosa da anni, da decenni, da secoli. Aveva comprato una casa silenziosa, così accende la televisione della cucina, che parla dalla colazione, al pranzo, alla cena. E lei pulisce, pulisce, e quando ha finito si siede sulla poltrona sfondata davanti al televisore. Il marito passa la giornata svolgendo cruciverba volontariamente interminabili, intervallandoli con la televisione del salotto. Maria ogni tanto va sul balcone. Non fuma, esce giusto per guardare fuori. Così, per passare il tempo. Ride del vecchio con la canotta macchiata di sugo che siede sul balcone del palazzone giallo di fronte e ascolta Frank Sinatra, facendolo risuonare per l’intero quartiere. Guarda i ragazzi uscire da scuola e parlottare nei loro zainetti. Li guarda fumare come dei piccoli uomini e alza le spalle di bonaria disapprovazione. Guarda il cielo, saluta i cari passati ad altra vita, conscia dell’approssimarsi del ricongiungimento familiare. Poi si annoia, si sente stupida nel contemplare, vigile, lo stradone come se non sapesse cosa trovarvi, così rientra subito dentro casa, fa scorrere la tenda e siede in poltrona. Adora stendere i panni. Adora stendere i panni perché le dà un motivo per stare in balcone. Di casa esce poco e niente, tanto il paese lo conosce a memoria e non ha più voglia di illudersi che sia legata ad esso la meraviglia della scoperta. Aveva avuto il suo tempo. Esce col marito d’estate, quando è bello godersi la brezza fresca del mare. Per il resto, le poche volte che si degnano di passeggiare per il borgo, mano nella mano, è per far capire al vicinato che nonostante l’avanzare dell’età, i continui acciacchi e i conseguenti cocktail medicinali, sono vivi. Maria ha la tv accesa quando il programma si interrompe. Il Premier annuncia in diretta le nuove normative comportamentali. Tutto chiuso. Aperti solo i supermercati, e pochi commercianti per lei inutili, come i tabacchini. Le dispiace un po’ per la chiesa, ha paura per la chiesa, ma poi, sollevata, si rintana nella convinzione che Dio sappia che non è colpa sua se non ci va, che avrebbe comunque voluto andarci, potendo decidere liberamente, che continua a credere, continua a dire il rosario, insomma. Quando sente dire che i datori di lavoro dovranno far lavorare i dipendenti da casa ride, quasi diabolica. Lei lo sa, lo sapeva da sempre.

Daniele

Daniele fa il libraio in una piccola libreria indipendente di paese. È in gamba, ma la libreria non è sua. È un commesso, un bravissimo commesso. Quando gli è stata comunicata la chiusura “fino a data da destinarsi” si è incazzato. Di una incazzatura composta, controllata, resa stoica dal ruvido della pagina che gli carezza la mano. I libri sono stati l’incipit delle metamorfosi della sua vita, finendo per divenirne il prologo. Concluso il capitolo, chiude il libro e, con un sospiro, abbassa la serranda. Daniele ha a cuore i clienti della libreria non sua dove lavora come bravissimo commesso, così appena tornato a casa apre Facebook e con un post annuncia la chiusura dell’attività, con la promessa che leggerà, leggerà come un ossesso, per continuare a dare consigli pronti sulle nuove uscite, una volta rientrato a lavoro. Dopo aver cenato si siede in poltrona, prende il libro e lo fissa. Senza la forza di aprirlo. Stanco, destabilizzato, stremato, distrutto, non se la sente di far scorrere lo sguardo lungo le righe. Guarda su internet che i colossi continuano a vendere anche a domicilio, nel mutismo distratto, asettico e senza cuore che gli è proprio. In fin dei conti la fruibilità culturale che ne deriva lo rasserena.  Pensa alle librerie indipendenti, quelle che già arrancano normalmente nel tentativo di sopravvivere e che adesso sono sull’orlo del precipizio. Eppure ci sono dei coraggiosi, nelle città, dei librai che, forse illegalmente, consegnano porta a porta. Alcuni fanno le consegne finanche in bicicletta. In bicicletta. Si commuove. Ha le lacrime agli occhi, perché sa che non è solo per tenere avanti un’attività. È per un principio, perché ci si sente indispensabili, verso chi necessita o brama cure per l’anima. E si sente in colpa, e si sente inferiore. Si sente in colpa perché inferiore. “La rivolta dei librai” l’hanno chiamata. La risposta di molti probi che nel proprio piccolo si oppongono ad un decreto che tratta la mente, l’anima e il cuore, come marginali. Un decreto che tratta la necessità della lettura e l’appagamento che ne deriva come inferiore a quello di un tiro di sigaretta o una pedicure. E Daniele piange scomposto, nudo di quella teatralità che gli appartiene solo tra gli scaffali. Pensa alla città, alla forza motrice che continua ad avere anche in un momento di quiete forzata, di silenzio estorto con una minaccia suicida. Daniele fa il libraio. Daniele fa il libraio e gestisce una libreria non sua. L’unica libreria del suo paese. Se Daniele chiude la cultura muore.

Rocco Cannarsa nasce a Termoli (Cb) il 29 Marzo 2000. Vive a Firenze dove frequenta la facoltà di Filosofia. Pubblica nel 2019 il racconto “Un frutto che cade” all’interno dell’antologia “Ricordi” (Mauro Pagliai Editore). Dal 2018 collabora con la rivista fiorentina “Streetbook Magazine”.

Per La Seppia ha scritto il racconto Voci.
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