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Fight for independence – 5

di Chiara Ercolini

Hentallion si deterse il sudore dalla fronte e diede un’occhiata fuori dalla finestra: la fila di persone bisognose di cure nella città di Libèrta andava aumentando di secondo in secondo e il personale del piccolo e poco fornito ospedale non riusciva a supplire a tutte le loro esigenze come avrebbero voluto e dovuto.

Il giovane medico scese di corsa le scale pericolanti che ad ogni passo si sgretolavano un po’ di più sotto i piedi di chi passava. Prese con sé un paio di pacchi di medicine, capsule, qualche respiratore: doveva almeno tentare di far qualcosa. Dopo gli ultimi bombardamenti all’ospedale, che quella mattina avevano distrutto la già traballante neonatologia ed ucciso una buona parte della nuova generazione di volpisti, coloro che erano riusciti a entrare e si erano abbandonati, stremati, malati e feriti, nei corridoi sovraffollati dell’edificio erano stati evacuati nei rifugi sotto di essi, che altro non erano che delle fogne. Molti civili, per sfuggire alle bombe, scappavano nelle fogne solo per incontrarvi una morte peggiore, per inedia, per fame, per sete, ma quello, sperava il giovane medico aderay, non sarebbe stato il destino delle persone che lui stesso aveva quella mattina condotto verso quei luoghi, con la promessa che o lui o qualcun altro sarebbero tornati ad assisterli.

Ma l’ospedale continuava a scoppiare per il continuo afflusso di persone, vittime degli attentati, degli spari, di qualche malattia comunissima divenuta mortale,… I corridoi erano un susseguirsi macabro di ammassi sanguinolenti che non aveva più neanche nulla di umano e di una caterva di morti diversi che si affiancavano per costituire il lugubre quadro di quanto sia pazza la specie chiamata uomo. 

“Dottore! Dottore!” invocava qualcuno e quella diveniva la loro ultima parola: dottore, quel dottore che poco prima, probabilmente, aveva applicato al loro braccio la striscetta di tessuto violaceo che significava “non trattare”. 

Anche Hentallion si stava portando dietro, nelle fogne, quei braccialetti maledetti con i quali avrebbe negato ad alcuni l’accesso alle cure decretandone la morte. Ma non c’erano abbastanza medicine per tutti e purtroppo bisognava fare una scelta. 

Quando, quasi due anni prima, subito dopo aver finito gli studi, era partito per la Repubblica Volpista, non aveva avuto la benché minima idea di ciò che l’avrebbe aspettato: l’aveva catturato l’idea di prestare soccorso alle persone bisognose, ma non aveva avuto alcuna cognizione di ciò che  avrebbe trovato. E quel che aveva visto e continuava ogni giorno a vedere lo aveva scioccato, lo aveva cambiato per sempre.

Prima di recarsi nella Repubblica Volpista, non aveva avuto una chiara opinione politica riguardo al conflitto tra il re e Melevis, ma ora non poteva non vedere chiaramente che il ministro aveva ragione, che il generale Talary, prima acceso sostenitore di Reykner e poi suo oppositore, e il generale Hadiby avevano ragione: anche loro, gli Aderayum dalla società perfetta, vivevano in una dittatura che voleva nascondere il marcio di quella guerra da cui il Mare Interno non ci avrebbe ricavato assolutamente nulla. Forse i lunghi secoli di buongoverno, di sviluppo e di neutralità avevano fatto loro dimenticare le loro conquiste: si erano adagiati sugli allori e ora i volpisti stavano aprendo loro gli occhi. Sì, ma a che prezzo?

Hentallion sfrecciò lungo i corridoi cercando di non badare alle urla, alle preghiere che si levavano al suo passaggio e rimanevano nell’aria anche quando ormai lui era già lontano. Quei suoni gli riecheggiavano nelle orecchie per ore, non ci avrebbe mai fatto l’abitudine, ma doveva andare avanti.

La notte, quella poche volte che non era di turno, crollava a terra esausto e, quando si risvegliava, sentiva il viso bagnato di lacrime, delle lacrime che, mentre faceva i suoi incubi, seguivano il fluir via delle anime dei pazienti che non era riuscito a salvare o che non aveva potuto neppure iniziare a trattare. Ognuno di loro avrebbe potuto essere sua madre, suo padre, uno dei suoi fratelli, un suo parente qualsiasi, un suo amico. E dietro ad ogni persona c’è sempre qualcun’altra che si aspetta che quella viva.

Scese le scalette di legno, prive delle metà dei pioli, che separavano l’ospedale vero e proprio dai rifugi, o meglio dalle fogne, che c’erano lì sotto. Non tutti quelli che vi si erano rifugiati erano tra coloro che lui aveva visto nei corridoi, ma molti giungevano anche attraverso la rete fognaria, rifugio considerato sicuro da molti civili. 

“Aossiliu! Aossiliu!”  invocava la maggior parte delle persone al suo passaggio, chiedevano aiuto. Molte altre invece non dicevano nulla, non avevano la forza per farlo.

Hentallion aveva imparato velocemente la lingua del posto, abbastanza simile all’italiano perché riuscisse ad apprenderla rapidamente, abbastanza distante da esso perché i suoi pazienti non lo capissero se parlava quell’idioma. E le loro voci avevano aggiunto tragicità ai loro sguardi. 

Incrociò gli occhi di un bambino seminudo, nel freddo attanagliante di quel luogo: seguiva il suo moto con i suoi occhioni azzurri ricolmi delle immagini che gli avevano strappato tutto, perfino la sua dolce ed infantile ingenuità, e gli avevano rivelato la legge del più forte. Stava in piedi lì, accanto alla parete, a guardare quell’uomo straniero che veniva verso di lui: lo guardava, ma non dava segno di averlo visto. Forse davanti ai suoi occhi si susseguivano altre immagini, molto più dolorose.

Hentallion si tolse il camice azzurro che contraddistingueva i medici della sua nazionalità e lo sistemò sulle spalle del bambino. 

“Seje assolu?” gli chiese. Sei da solo?

Spaventato, guardando ma forse senza vederlo, il piccolo annuì.

“Viene cun me.” Vieni con me. Hentallion gli porse la mano e il bimbo l’afferrò solo dopo qualche tentennamento. “Ğiamu a curar alguno.” Andiamo a curare qualcuno. E il piccolo gli strinse convulsamente la mano.

Si chinava sulle persone, chiedeva loro, se poteva, cosa facesse loro male e, a seconda di ciò che poteva fare, distribuiva le sue pastiglie oppure bendava le ferite: molti erano troppo gravi per essere trattati, molti erano già morti ed erano circondati dai loro cari rimasti che guardavano il corpo senza vita con la mesta espressione di chi ormai è rassegnato a qualsiasi cosa.

Stava per risalire, con la mano stretta in quella del bambino, con il cuore pesante per la consapevolezza di non aver potuto fare tutto ciò che avrebbe voluto, quando una mano lo afferrò da dietro:

“Dotòr! Dotòr! A pau favòr! Šalve a mieur filiu!” Dottore! Dottore! La prego! Salvi mio figlio!

Hentallion si voltò e si trovò davanti una ragazza che poteva aver avuto più o meno la sua stessa età, se non qualche anno in meno, e lo sguardo disperato di una madre precoce, una giovane donna che aveva conosciuto presto le peggiori angherie della vita, che aveva visto di tutto anche la morte del suo primo e forse unico figlio. Sì, perché il bambino, un fagotto insanguinato, era già morto da un po’ quando Hentallion si chinò a esaminarlo: sarebbe stato un ferito da non trattare nella scelta che un medico avrebbe dovuto operare. La madre, nel suo dolore, non si era accorta che era già morto e in quel momento il suo coetaneo medico non ebbe cuore di dirle la verità.

“Farò quel che posso.” E lo sguardo della ragazza, al massimo ventitré anni come lui, si riaccese di speranza, “Purtroppo però non ti posso promettere niente.”

Prese in braccio il fagotto, che ormai aveva perso così tanto sangue che pesava la metà di quello che il suo già denutrito corpo avrebbe potuto pesare, e si diresse sulle pericolanti scalette seguito a breve distanza dal piccolo dagli occhi azzurri e dalla speranzosa madre, che presto avrebbe però dovuto deludere e distruggere.

Mentre saliva quelle scalette non sapeva ancora che quei due sarebbero diventati la sua famiglia: Ariana, la bellissima moglie che avrebbe portato via da quell’inferno, e Šaver, il suo primo figlio.