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Fight for independence – 3

di Chiara Ercolini

Amaliu si abbassò dietro il muretto semidistrutto con il respiro affannato: l’adrenalina e la paura si mescolavano nelle sue vene e ognuna alimentava l’altra in un circolo vizioso che ormai durava notte e giorno da anni.
Respirò a fondo e chiuse gli occhi cercando di immaginare cosa facessero i suoi fratelli, se fossero ancora vivi o se il loro rifugio fosse stato bombardato come tre quarti della città di Libèrta.
Mormorò una breve preghiera per Antonio e Sefìa, che in quel momento probabilmente si stavano abbracciando seppelliti sotto la rossa coperta sdrucita e una marea di calcinacci provenienti dai piani superiori della palazzina crollata. Nonostante casa loro fosse proprio un buco, non c’erano mai stati grossi problemi con i bombardamenti a parte qualche piccolo crollo, quindi Amaliu era quasi sicuro che, al suo ritorno, li avrebbe trovati esattamente come l’anno prima  e l’anno prima ancora, solo un po’ cresciuti.
Amaliu non era molto bravo a ricordarsi l’età delle persone tanto che spesso non si ricordava nemmeno quanti anni avesse lui, ma era abbastanza sicuro che suo fratello Antonio ne avesse otto e sua sorella Sefìa quindici. Lui, probabilmente, ne aveva ventidue e faceva il soldato dall’anno dell’attentato al Parlamento degli sdimocraçi, i filorosslaniti, tornati in patria dopo l’esilio, quindi da quando ne aveva quindici. A Rosslan chiamavano quelli come lui bambini soldato, ragazzini che avevano imparato prima ad uccidere e a sparare che a scrivere con sicurezza, ma cosa ci si poteva aspettare da un Paese che, appena nato, era già morto e sepolto nella cenere dei mortai?
Amaliu aveva fatto tre anni di elementari prima dello scoppio della guerra e quello era stato l’unico periodo della sua vita in cui aveva messo piede in una scuola. Libèrta era ancora parte della Repubblica di Rosslan allora e Marşi era appena diventato qualcuno sulla scena nazionale. Amaliu ricordava che allora le lezioni non avvenivano in lingua locale ma in italiano e che spesso gli insegnanti locali venivano ripresi dai frequenti ispettori perché parlavano in volpista anziché nella lingua ufficiale.
C’erano anche alcuni maestri rosslaniti, uno che era italiano per davvero ma, quando un bambino lo faceva arrabbiare perché non aveva capito la consegna, parlava uno strano dialetto e diceva una cosa che più o meno suonava così: “Diu Boe! Ma ce atu capit? Tu ses proprit un mȗs!”[1] Nessuno aveva mai capito quelle frasi ma non era stato certo difficile per i bambini di una minoranza etnica oppressa capire che il maestro era arrabbiato, che probabilmente non avrebbe voluto insegnare lì ma da tutt’altra parte e che avrebbe dato oro pur di potersi trasferir di sede. In realtà di quella manciata di parole di quel dialetto sconosciuto avevano capito qualcosa: la bestemmia. “Maestro, ma Dio non si arrabbia quando lo chiami per niente?” gli aveva chiesto una volta coraggiosamente Amaliu, dal basso della sua ingenuità. La risposta che aveva ricevuto era stata una sberla accompagnata da una bestemmia e da altre parole incomprensibili: “Volpiscj di miarde!”[2]
In quei tre anni di scuola non avevano imparato granché: nessuno aveva mai insegnato loro nulla riguardo alla loro lingua e tutti avevano preteso che imparassero a scrivere e a leggere, come se fosse stata la loro madre lingua, un idioma che neanche capivano. Per quanto l’italiano potesse essere simile al volpista, le due lingue non erano mutualmente intelligibili e il risultato era una massa di bambini che non aveva mai capito nulla delle lezioni. Forse matematica, qualche base, ma le altre materie erano un vuoto totale. Amaliu non si ricordava neanche di aver studiato qualcosa di diverso da italiano e matematica. O forse c’era stata anche storia, sì storia c’era: una storia che cancellava i volpisti dalla cartina geografica. Sui libri c’erano pagine e pagine dedicate alle altre minoranze ma su di loro niente, come se non fossero nemmeno esistiti.

Poi al pomeriggio tardo si ritornava a casa e i libri di scuola venivano gettati in un angolo, in attesa che qualche adulto venisse a spiegare ai bambini cosa ci fosse scritto. Loro intanto correvano a giocare tra i ridenti quartieri pieni di fiori e zigzagavano tra i carretti e le mercanzie che i negozianti esponevano davanti alle loro vetrine. Allora Libèrta era ancora una città viva, dove c’era ancora il rischio che qualcuno ti corresse dietro con uno straccio se per caso tu avessi mirato uno dei vasi di gerani sul davanzale col pallone. Adesso la gente ti rincorreva per altro.
A dir il vero, per quanto riguardava il suo ultimo anno di scuola, Amaliu ricordava che per quasi tutto il tempo fosse stata chiusa a causa delle manifestazioni a favore dell’indipendenza; ricordava di essersi infilato anche lui coi suoi amici tra i cortei, giusto per provare l’ebbrezza di marciare come qualcuno che ha qualcosa di importante da dire o come i militari. Ora delle marce militari ne aveva fin troppe.
Aveva pensato tante volte nelle notti fredde senza luna, col fucile in mano puntato verso l’altra parte della strada, di invertirne l’orientamento e farla finita, ma i volti dei suoi fratelli, che dipendevano solo ed esclusivamente da lui, lo avevano fatto desistere: c’era ancora qualcuno che aveva bisogno che lui coprisse la strada di morte per poter vivere.
Mentre si sporgeva lievemente dal muretto laterale di una casa ormai diroccata e puntava il fucile contro quelli di fronte, pensò a quando, coi suoi compagni di scuola, prendevano dei legnetti e facevano finta che fossero le armi con cui avrebbero cacciato i rosslaniti dalla loro terra: anche loro, nell’ultimo anno di scuola che avevano potuto fare, erano stati catturati dalla cupa retorica bellica di Marşi. Avevano giocato alla guerra e nessuno aveva mai detto loro di smetterla. Ora, se avesse visto qualcuno giocare a quell’insensata lotta, Amaliu l’avrebbe preso per le orecchie e riportato a casa, se ne aveva ancora una.
Molti dei suoi compagni si erano arruolati nel suo stesso periodo, quando ormai erano già anni che il loro Paese era martoriato da quello stesso gioco che li aveva tanto divertiti, ora divenuto però tristemente reale. Molti erano saltati in aria vestendo ancora abiti civili, altri invece erano riusciti ad indossare quella maledetta divisa che li aveva fatti diventare soldati dell’ Isserčitu ğea a Republica Volpista, soldati che non avevano idea di chi fosse il loro leader, ora che il presidente era scappato ed aveva armato il Frençe.
Amaliu sapeva due cose soltanto: che doveva sparare ai rosslaniti e stanare i terroristi. Tutto il resto era accessorio, anche eventualmente piazzare le cariche contro gli Aderayum, gli unici che avessero mostrato un po’ di umanità in quel conflitto. Lui ufficialmente faceva parte di un esercito disarmato e smobilitato dal momento della conquista della capitale ma si era arruolato dopo quello stesso avvenimento e sapeva di combattere in quel momento, anche se formalmente né lui né la sua unità né la sua compagnia né il suo reggimento esistevano. Erano fantasmi in quel conflitto, preda di tutti e sfruttati dagli alleati di Soroskia, che facevano ancora affidamento su di loro per utilizzarli come carne da macello.

I soldati dell’IRV avevano la fama di essere dei bruti, di uccidere solo i civili, di usarli come scudi umani, ma in realtà erano solo un altro tipo di vittima di quella guerra insensata.
“Ama, ma tu non hai mai sparato ad un bambino, vero?” gli aveva chiesto due anni prima Antonio.
“No, non l’ho mai fatto.” aveva risposto. Non sapeva se fosse vera quella frase ma molto probabilmente no: una volta, forse più di una, aveva lanciato una granata su una casa, sospetto covo di terroristi. Ma le urla dei feriti e dei moribondi erano state solo voci di donne e bambini. Lo tormentavano ancora la notte.
“Meglio, perché il papà del mio amico Seferiu dice che i nostri soldati uccidono le persone normali.”
Amaliu non aveva risposto niente, ma si era alzato ed era uscito dal rifugio prima di dover incrociare gli occhi di Antonio: i bambini potevano essere ingenui, ma di sicuro non lo erano come lo era stato lui alla stessa età. Antonio avrebbe capito, esattamente come aveva capito Sefìa quando lui era uscito con le lacrime agli occhi, trattenendosi a stento dallo scoppiare a piangere.
Anche lei ne aveva passate tante ed era cresciuta prima del tempo, quando, qualche giorno dopo il bombardamento che aveva distrutto la loro casa e la loro famiglia, ancora sfollati per le strade con migliaia di altre persone, due uomini avevano abusato di lei, una bambina di otto anni.
Amaliu percepì un movimento dietro ad una delle finestre rotte dell’edificio di fronte e premette il grilletto, chiudendo gli occhi: forse così si sarebbe sentito un po’ meno colpevole. Si abbassò dietro al muretto e aspettò che la salva di colpi proveniente dall’altra parte, da coloro che cercavano quel maledetto cecchino che da giorni li stava falciando, passasse di nuovo sopra la sua testa. Erano sei giorni che stava appostato lì, cambiando ogni tot l’angolatura del tiro, per non farsi beccare da quelli di fronte che, se non si era sbagliato, erano dei rosslaniti non italiani. Ma la morte non guardava in faccia nessuno né tanto meno guardava la carta d’identità per assicurarsi della cittadinanza.
Sparò di nuovo alcuni colpi, che andarono a segno: sergente maggiore Spatea, tiratore scelto del reggimento 6 dell’Esercito della Repubblica Libera Volpista. In parole povere un maledettissimo cecchino, che ai suoi ordini aveva altri della sua stessa risma e prendeva comandi da ancora più gente ancor peggiore.
Quando sette anni prima Amaliu si era arruolato aveva già perso ogni speranza, aveva già perso la sua casa e i suoi genitori, aveva già fatto mille lavoretti per due miseri dinari al mese per dieci o più ore al giorno; aveva già potuto sperimentare la paura dei mortai, il correre ai rifugi, lo scendere nelle fogne, il veder morire gli amici di sempre…. Quando si era arruolato, aveva pensato di aver già visto tutto, che nulla avrebbe potuto peggiorare. Invece si era sbagliato.
Aveva visto i terroristi ed aveva imparato a sparare, aveva imparato ad aver paura di non sopravvivere e di lasciare a sé stessi i suoi fratelli, aveva imparato a temere di non trovarli più al proprio ritorno. Aveva imparato a soffocare le lacrime, a stare sveglio la notte non tanto per i turni di ronda, ma per la paura di sprofondare in un sonno che avrebbe fatto solo riemergere i fantasmi del giorno.
Aveva fatto l’abitudine alla morte ma non così tanto come avrebbe dovuto o voluto: aveva sempre pensato che l’indifferenza fosse il confine tra un uomo e un animale, ma ora non era più così convinto. Forse sarebbe stato un po’ più in pace con sé stesso se fosse stato un po’ più indifferente.
Ricordava vividamente la morte del suo migliore amico Nicolau, soldato come lui, stesso reggimento, stessa compagnia, stessa unità, posizione accanto alla sua. Avevano condiviso i banchi di scuola e l’idea di chiedere al maestro cattivo cosa volessero dire quelle parole in dialetto. Avevano condiviso il pallone per giocare a calcio tra le vie ed erano corsi via dai commercianti o dalle signore imbizzarrite sempre insieme, ridendo. Avevano marciato per l’indipendenza insieme, senza saper bene, a dieci anni, cosa volesse dire la parola endipendença. E infine avevano condiviso quello stupido gioco coi bastoni di legno che poi si era tramutato nella loro maledizione quotidiana. Una pallottola al torace l’aveva stroncato a sedici anni e Amaliu ricordava ancora sé stesso chiamarlo, anche quando era già morto.
Lui era sopravvissuto, ma non era così sicuro che la vita fosse meglio della morte: era combattuto tra il volere che gli sparassero e lo liberassero dai suoi fantasmi e il tener duro per Antonio e Sefìa. Per ora aveva prevalso la seconda.
Si sporse ancora una volta per sparare, quattro colpi, poi si ritirò. E la solfa andò avanti per ore, sarebbe forse andata avanti giorni e giorni se il destino non avesse deciso in altro modo.
Ad Amaliu Spatea, sergente maggiore, tiratore scelto del reggimento 6 dell’IRV, non poteva sempre andar liscia: prima o poi anche i migliori soccombono e un ritardo di un millisecondo decretò che il suo Dio, che pregava piangendo tutte le sere, lo chiamasse a sé, facendogli il favore di non sapere che Antonio era saltato in aria e Sefìa era rimasta sepolta nel malfermo rifugio.
Una pallottola gli perforò il cranio da parte a parte penetrandogli all’altezza della tempia. Amaliu non sentì neppure dolore, non ebbe neppure tempo di pensare. La morte mise fine a tutti i suoi fantasmi.

[1]             Friulano: Dio boia! Ma cos’hai capito? Sei proprio un asino!
[2]            Volpisti di merda!