di Chiara Ercolini
“Muoviti, Antonio!” Seferiu correva tra le macerie del quartiere appena distrutto dai bombardamenti dei soldati, non si sapeva bene di quale parte: forse erano quelli di Rosslan, che non volevano che loro fossero liberi, o forse erano quelli del presidente, di cui nessuno comprendeva le azioni, men che meno i due bambini. Perché Paulu Marşi, l’eroe dell’indipendenza, aveva deciso di martoriare il suo popolo con le bombe e non i nemici? Quelli che di solito saltavano in aria erano civili di nazionalità volpista e non soldati della Repubblica di Rosslan. Al massimo saltava in aria qualche Aderay, ma Seferiu voleva bene agli uomini del Mare Interno: erano quelli che non sparavano mai sulle persone normali e non mettevano le bombe. Poi, davano sempre le caramelle ai bambini.
La mamma di Seferiu gli aveva raccontato che durante l’assedio della città, otto anni prima quando lui era appena nato, i soldati del presidente avevano usato i civili come scudi umani. Quando il bambino le aveva chiesto cosa fossero degli “scudi umani” , lei gli aveva risposto che era un modo per proteggersi dai colpi e far sì che i nemici non sparassero. E Seferiu non aveva capito più nulla: se il presidente era un eroe che aveva liberato il Paese dal giogo dei rosslaniti, come mai durante tutta la guerra aveva solo massacrato la sua gente?
Suo papà, qualche giorno prima di saltare in aria su una bomba, probabilmente del Frençe, gli aveva spiegato che le persone così si chiamavano dittatori, o una parola del genere: erano persone cattive che non vedevano l’ora di fare del male agli altri per poterli controllare.
“Ma cosa vuol dire controllare?” gli aveva chiesto allora.
“Vuol dire comandare, comandare su tutto. Il presidente decide tutto e tu non puoi più fare quello che ti piace.” gli aveva spiegato suo papà.
A Seferiu mancava suo padre: gli mancava il suo portarlo sulle spalle e farcelo saltellare sopra, gli mancava il gioco delle candele nel rifugio scavato sotto casa, farlo con la mamma e la nonna non era la stessa cosa. Gli mancava il suo modo semplice e diretto di spiegargli le cose e il suo modo di far sembrare sempre tutto più facile e meno duro di quanto in realtà non lo fosse: quando tre anni prima erano dovuti scappare nelle fogne perché nel loro quartiere esplodeva una bomba dietro l’altra, suo papà gliel’aveva fatto vivere come un gioco, un’avventura di un grande esploratore che va alla ricerca del popolo dei nani nascosti dentro la terra. Ora Seferiu capiva che non c’era nessun nano nel sottosuolo e che la sua sorellina Maria, appena nata all’epoca, non era stata affidata al Grande Capo Nano perché crescesse “bella, bella, lontano dalla guerra”, ma era rimasta là sotto, come tante altre persone che non ce l’avevano fatta.
Aveva passato almeno due anni a fantasticare sul ritorno del Grande Nano, che un giorno avrebbe riportato a casa sua sorella, un po’ più grande e un po’ meno strillante, ma poi aveva capito che quell’essere non esisteva e che lui non avrebbe mai più potuto giocare a sbatacchiare qua e là la culla mentre sua madre lo sgridava e gli diceva di far più piano. Non avrebbe più potuto giocare a lanciare le palline di carta alla bambina che le guardava come se fossero state un grande prodigio della natura. Uno di quei due anni aveva perfino scritto ad un altro essere strano che portava i regali ai bambini la notte prima della nascita di Gesù, un certo Babbo Natale, che dicesse al suo probabilmente amico (se erano tutti buoni perché non avrebbero dovuto esserlo?) nano di riportare a casa sua sorella perché dovevano giocare con le palline.
Ma neanche Babbo Natale esisteva: non esisteva nessuno e i bambini della Repubblica Volpista erano lasciati a sé stessi, abbandonati alla crudeltà, alla paura di essere i prossimi o che i prossimi a saltare in aria fossero quelli a cui loro tenevano di più. Avevano imparato presto cosa fosse una bomba, cosa un allarme e cosa si dovesse fare in tal caso. Non avevano mai visto la pace e non sapevano cosa fosse: sapevano solo che i loro genitori e i loro nonni ne parlavano come di un gran bel tempo passato.
Uno scoppio alle spalle dei due bambini li fece girare: per fortuna quel giorno erano andati al rifugio del maestro e non alla scuola vera. Quest’ultima aveva subito molti crolli a causa degli scossoni prodotti dalle esplosioni tutt’intorno e quel giorno era stata espressamente colpita, forse dai rosslaniti, forse dagli alleati di Soroskia, molto più probabilmente dai terroristi del Frençe.
“Papà, chi sono i terroristi?” aveva chiesto una volta Seferiu.
“Sono persone cattive, che fanno male, uccidono la gente e si nascondono dietro la sacra indipendenza.” gli aveva risposto: quanto tempo era passato da quella notte di terrore, poco dopo l’attentato suicida nel quartiere accanto, che aveva fatto tremare le case di tutta la città. Seferiu se lo ricordava come se fosse stato il giorno prima.
“Ma non hanno neanche un po’ di buono? Neanche poco poco?”
“No.” La risposta.
“Ma allora neanche il presidente ha niente di buono.” aveva concluso il bambino, che aveva scoperto da poco che cosa significasse essere un dittatore.
“No, niente.”
La madre di Seferiu gli aveva raccontato di quando credevano che il presidente fosse un brav’uomo perché si faceva sempre ritrarre benevolo attorniato dai bambini: avevano capito poi che era tutta una farsa. Tutto il mondo era una farsa. Tutti erano falsi: prima facevano un bel sorriso, poi ti puntavano addosso un fucile. Era successo anche a Seferiu: il suo vicino di casa l’aveva preso in ostaggio mentre tornava a casa da scuola l’anno prima e aveva minacciato di ucciderlo se sua madre non gli avesse consegnato il denaro che aveva in casa. Quelli subito dopo erano stati tempi durissimi: solo grazie ai sacrifici degli zii avevano potuto farcela, ora che era morto anche il papà.
“Secondo te cos’è saltato?” chiese Antonio. Era un bambino goffo, di un anno più piccolo, che stava quasi sempre attaccato a Seferiu. A quest’ultimo all’inizio aveva dato fastidio, ma infine aveva trovato che non gli dispiaceva avere un po’ di compagnia, anche se un po’ invadente.
Antonio viveva con la sorella maggiore nei rifugi di uno scheletro di edificio nella periferia: non sapeva di aver mai abitato da nessun’altra parte e non ricordava di aver mai conosciuto i suoi genitori. Una volta all’anno vedeva il fratello maggiore che, col suo magrissimo stipendio da soldato, pagato ogni sei mesi, dava da mangiare quel poco che la famiglia aveva. Amaliu, sergente maggiore, era uno di quelli che erano riusciti a sopravvivere e non si sapeva per chi combattessero, se per Rosslan contro il terrorismo o contro Rosslan con Marşi. Probabilmente non lo sapeva neanche lui, come non lo sapevano tutti i suoi compagni: lottavano semplicemente per arrivare a fine giornata e i cento dinari volpisti che inviava a casa ogni tanto non si sapeva bene da dove arrivassero, fatto stava che, per fortuna di Antonio, arrivavano.
“Il quartiere della scuola. Muoviti!” rispose bruscamente Seferiu: non voleva essere antipatico col suo amico, però, quando cadevano le bombe, aveva così tanta paura che non riusciva a non risultare acido. Si sentiva in quel momento il più alto in grado, quello che, siccome era più grande, doveva proteggere gli altri e in quegli altri c’era anche Antonio.
“Secondo te dove saltano dopo?”
“Non lo so, non sono mica il Signore che sa tutto!” Seferiu alzò gli occhi al cielo ma nessuna immagine sorridente gli restituì il suo sguardo: non c’era nessuno tra le nuvole a guardare, solo le nubi nere che minacciavano di far piovere sulla grigia città ormai morta di Libèrta. In cielo non c’era quel volto sorridente con le braccia aperte per accogliere che c’era stato in un quadretto in chiesa prima che l’edificio saltasse in aria. Quello probabilmente l’avevano fatto saltare i rosslaniti o almeno tutti dicevano così: il cristianesimo elementale era stato da sempre una delle cose che aveva distinto i volpisti dagli altri.
Un tuono squarciò il cielo cupo: a breve si sarebbe messo a piovere e sarebbe stato ancor più difficile riuscire ad arrivare a casa tra la pioggia e le bombe. Nemmeno il tempo atmosferico lasciava Libèrta in pace: forse anche Dio ce l’aveva con loro, ma chissà cos’avevano fatto di male? Ormai la città si era divisa in due sul fronte religioso: c’era chi si era appeso con tutte le proprie forze alla fede, perché era l’unica cosa che gli fosse rimasta, e chi, invece, aveva completamente rinnegato la religione ed aveva razionalmente deciso che non poteva esserci nessuna divinità buona che permettesse un tale scempio del genere umano.
Lo scroscio di pioggia picchiò forte i bambini in testa, assieme a qualche briciola di pietra che si sgretolava dai palazzi ridotti ormai ad una serie di scheletri di cemento e ferro: essi non avevano più nulla a che fare con la città colorata ed ospitale delle foto di famiglia.
“Andiamo là sotto!” decretò Seferiu, appena trovò con lo sguardo un buco tra le macerie che sembrasse abbastanza riparato dalla pioggia: almeno dall’acqua sarebbero stati protetti visto che da tutto il resto non sarebbero mai stati al sicuro.
Quel buco tra le macerie somigliava molto alla casa di Antonio a parte il fatto che non vi fossero pentole, pentoline, pentolacce e qualche cianfrusaglia di famiglia che sua sorella era riuscita a salvare e custodiva gelosamente in una buca scavata nella terra. Seferiu invece abitava in una vera casa, diroccata e ormai quasi impraticabile, ma pur sempre una casa.
“Fa freddo… accendiamo un fuoco?” chiese Antonio indicando qualche pezzo di legno in un angolo.
“Ma sei scemo? Così ci fai scoprire!” sibilò Seferiu.
Antonio tacque: con sua sorella accendeva sempre un fuoco e nessuno aveva mai sparato loro. Forse perché erano i fratelli di un maggiore: Amaliu per lui era un eroe. Non importava cosa facesse, era un eroe dell’indipendenza semplicemente perché era suo fratello e, ogni volta che tornava a casa, quell’unica giornata che passava con lui lo rendeva felice come una Pasqua, se non di più.
Le esplosioni continuavano: non si sarebbero fermate mai, facevano parte del sottofondo costante, e dopo un po’ si faceva l’abitudine sia al rumore sia alla paura che esso portava.
“Facciamo un gioco.” propose Seferiu dopo un po’: il silenzio lo atterriva, lo faceva concentrare troppo su quei rumori spaventosi che squassavano la città a tutte le ore del giorno.
Quando era piccolo e piangeva ogni volta che sentiva il suono dei mortai la notte, sua madre gli raccontava una storia o inventava un gioco per aiutarlo a dormire. Ormai il bambino ci aveva fatto l’abitudine e non mostrava più la propria paura, si sentiva ormai quasi un adulto quindi, in quanto tale, non poteva cedere alla lusinga delle storielle. Ormai quelle erano passate e lui a breve avrebbe cominciato a lavorare come tagliatore di pietre per un signore di campagna che non si sapeva bene chi fosse.
“Contiamo i secondi tra i tuoni e i lampi?” chiese Antonio.
Seferiu fece di sì con la testa.
“Uno, due, tre.” Tuono. Il temporale era quasi sopra la loro testa.
“Uno, due, tre .” Tuono. Non è che si spostassero così veloci le masse d’aria, ma almeno stavano facendo qualcosa.
“S’je alguno. Fratiu, sculta!” Una frase appena udibile, nella loro lingua, ruppe il loro gioco. C’è qualcuno. Fratello, ascolta!
Già, fratello, ascolta. C’era qualcun altro oltre ai due bambini.
Non si poteva stare tranquilli neppure in quel luogo: non c’era alcuna sicurezza nella città di Libèrta. Chissà chi erano quei due – perché c’erano almeno due persone oltre a loro- ? Forse si erano rifugiati anche loro lì sotto per proteggersi dalla pioggia, forse erano dei soldati dell’ Isserčitu, come Amaliu, forse invece erano di un’altra formazione.
Seferiu ed Antonio, pietrificati dalla paura, non osavano più nemmeno respirare: fintanto che non avessero saputo chi stesse lì, accanto a loro, in quel buco sotterraneo, non avrebbero mosso un muscolo.
“Čerca! S’je alguno! I nieu nu paçemu a faserse escuprir![1]” disse uno dei due e i bambini tremarono: non volevano farsi scoprire.
Seferiu sperò che fossero rifugiati come loro, che anche non volevano farsi trovare, ma quel sesto senso che solo i bambini hanno gli suggeriva che le cose non stavano come avrebbe desiderato.
“Nu importa! Prepara a bomba i tača! Caiu ançe està chi nu paçe a špravevir!” Non importa! Prepara la bomba! Chiunque stia qua dentro non può sopravvivere!
I due bambini non riuscirono a non trasalire: Antonio gemette e Seferiu spostò un piede di lato facendo per sbaglio rotolare una pietra, che probabilmente finì nel campo visivo di uno dei due, ormai era chiaro, terroristi. Avevano trovato il Frençe e ora il Frençe aveva trovato loro. I due tremarono: gli stralci di racconto che si udivano dai passanti non promettevano niente di buono e poi i terroristi erano persone che non sapevano cosa fosse il bene, l’aveva detto il papà di Seferiu.
In un lampo, due uomini barbuti, con il volto ustionato e coperto di una strana polverina nera che non era fuliggine, comparirono sopra di loro.
I bambini ebbero tempo solo di aver paura e poi saltarono assieme agli attentatori suicidi, che volevano martoriare un quartiere già morto. Seferiu Šaru ed Antonio Spatea sarebbero stati tra quei milioni di vittime che nessuno avrebbe mai riconosciuto, distrutte in brandelli introvabili; di loro sarebbero rimaste solo pallide tracce di sangue su un muro che probabilmente qualche ora dopo non sarebbe neppure più esistito.
[1] Cerca! C’è qualcuno! E noi non possiamo farci scoprire!