di Letizia Rigotto
EMERA
Emera è la città con le più belle opere che l’uomo e la natura abbiano mai creato: grattacieli in vetro che riflettono la luce, palazzi con pareti di marmo e tetti d’oro, canali pieni di cigni, anatre e pesci sormontati da ponti di sale, ambra, foglie e conchiglie; portici lunghi chilometri e case che si incastrano fra di loro nei vicoli coperti dai panni a stendere; piazze con cascate e baobab millenari sui cui rami si appollaiano pappagalli e persone a bere il caffè; ville costruite su palafitte a largo del porto, cupole di bronzo una sopra all’altra e castelli costruiti sugli alberi, sulle liane, nella roccia delle montagne.
A Emera folle di turisti invadono le strade ad ogni ora del giorno, affollandosi sui ponti, nelle piazze e nei mercati a comprare a pochi soldi anelli di diamante, orecchini di rubino e collane d’argento. I bar e i ristoranti risuonano di ogni lingua conosciuta e bastimenti carichi di ogni merce attraccano al porto con le vele spiegate a vendere arazzi, abiti pregiati, spezie e gioielli.
Carrozze, automobili a cavalli ingorgano le strade incastonate di diamanti, e decine di giovani eleganti scivolano per le vie accennando saluti e infilandosi nei vicoli. Musicisti improvvisati suonano sui tetti creando orchestre di interi quartieri e nei vicoli gli stessi giovani si prendono sottobraccio e cominciano a ballare. I bambini si bagnano nelle cascate sorvegliati da dame impettite sedute ai tavolini dei bar, mentre uomini incilindrati dall’aria maldestra corrono dietro ad altri che si stanno arrampicando su qualche muretto.
Intere famiglie sedute sui ciottoli, negli angoli delle strade, si riparano dal sole, e centinaia di mongolfiere e dirigibili ogni giorno sorvolano la città atterrando sugli alberi, sui tetti e sulle spiagge.
A Emera le voci, i suoni, i fischi e i versi durante il giorno si accavallano gli uni sugli altri così che anche due persone che camminano vicine sono costrette a urlare per sentirsi.
Eppure, quando cala il buio, quando anche l’ultimo treno carico di turisti ha lasciato la banchina della stazione, a Emera non rimane più nessuno.
Le imposte guardano fredde e chiuse le strade brillanti nella notte, le insegne dei negozi si spengono e tutta la città riflette sui palazzi e sui canali la luce della luna, così che, per chi la vedesse da lontano, sembrerebbe una stella sull’orizzonte.
Solo qualche persona si aggira per i vicoli, camminando lentamente, e se due si incontrano si scambiano un breve cenno, andandosene in silenzio.
Al porto i pescherecci cozzano con le chiglie la superficie dell’acqua, ondeggiando nel buio, mentre bagliori di sigaretta si accendono lungo la banchina.
Per tutta la notte, nelle strade rimbomba lo sgocciolare delle fontanelle, lo scricchiolare delle cime tese, fino a che, quando il primo raggio di sole proietta la sua prima ombra, le navi non cominciano ad arrivare, e dalla stazione non senti provenire un fischio.