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Il lungo vespro nero – Parte 3

di Alessandro Simonutti

I sette si erano proiettati nella tenebra che colmava la strettoia. Il buio sembrava aver corrotto a fondo le pareti rocciose, tanto da farle scomparire in un abisso senza forma, da cui non proveniva nulla se non il viscido richiamo dei serpenti. Tutto attorno al drappello d’uomini gravava un’umidità asfissiante, che si era abbattuta sulle vesti e i capelli rendendoli madidi e pesanti. Camminavano da più di un’ora, con gli occhi fissi verso quella sottile vena di luce biancastra che era comparsa sul fondo della lunga traversata.
D’un tratto, fu ancora una volta Neri a interrompere il silenzio che quel luogo sembrava aver imposto ai guerrieri. Si avvicinò ad Arrigo, fissandolo per qualche breve istante, prima di interrogarlo – Chi sono le cappe nere? – L’errabondo esitò un attimo e poi ricambiò la domanda – Davvero non lo sai, ragazzo? – 
Il giovane, senza dimostrare alcun fastidio rispetto alla perplessità dell’interlocutore, dichiarò secco – No, non lo so – – Sono una compagnia di mercenari senza vessilli, che vaga per la valle in attesa di essere assoldata. A questa terra non è mai mancata una guerra da combattere, come alle cappe nere non sono mai mancati uomini da reclutare. Orfani, diseredati, raminghi e fuggitivi, tutta gente che ha trovato nelle cappe nere una risposta. –

Il gruppo aveva quasi raggiunto la luce che all’inizio era parsa nulla più di un pallido miraggio. Tutti affrettarono il passo come se, avendo constatato che quell’esalazione lattiginosa esisteva davvero, avessero ora paura che il buio decidesse di inghiottirla davanti ai loro occhi. Quando giunsero a qualche passo dal chiarore, Gano il guercio, che era in testa alla breve colonna, si girò verso gli altri e dichiarò – Siamo a metà percorso -; i suoi occhi attesero di sprigionare il loro solito strano barlume, prima di voltarsi nuovamente in direzione di marcia.
Gli uomini si immersero senza esitazione nella parete di luce, che gli parve quasi di poter toccare; camminarono avvolti dal chiarore, e tutti percepirono le pupille stanche e assuefatte alla tenebra richiudersi d’un tratto come un mollusco nella valva. Quando riaprirono gli occhi, si ritrovarono in un punto dove la strettoia si allargava improvvisamente fino a formare un’ampia cavità. Guardarono sopra le loro teste per capire da dove provenisse quella luce accecante, risalendo le pareti di roccia con lo sguardo. Sembrava che in quel luogo fosse stata eretta una sorta di cupola, che doveva cadere lungo il perimetro roccioso che circondava lo spiazzo. In cima alla struttura era stato ritagliato un ampio finestrone circolare, dal quale i raggi lunari fendevano il buio come una lama affilata, per poi lanciarsi sull’accesso da cui i sette erano entrati.
Il fascio di luce era tanto denso e compatto da illuminare appena l’interno della cavità, che rimaneva avvolta da una penombra grigiastra. Da questa penombra emergevano delle figure umane, disposte in maniera irregolare sul terreno. I due fratelli, che avevano pregato all’ingresso della strettoia, si mossero per primi, avvicinandosi al primo di quei profili immobili ed eretti. Gli altri cominciarono a muoversi lungo le pareti della cavità, continuando ad osservare lo strano insieme di corpi al centro dello spiazzo e le mosse dei due guerrieri. Lodovico disse rivolgendosi a tutti – Questo è il monumento alla memoria dei nostri antenati, dei pochi che scelsero di morire per la vita dei molti, il nostro destino è legato al loro – il fratello Umberto si limitò ad avvicinarsi alla prima statua, sfiorandone con la mano la superficie liscia e corrosa dall’umidità. 
Gli altri continuavano ad aggirarsi attorno alle statue, osservandone i volti ormai irriconoscibili che ricambiavano lo sguardo dalle loro orbite vuote. Arrigo si trovò accanto al monaco, abbastanza lontano dai corpi granitici per poterne avere una visione d’insieme. Senza voltarsi, aprì bocca verso l’uomo incappucciato – Alla radura, mi parlasti dei loro antenati che si immolarono – il guercio disse – Si, l’ho fatto-
– Quanti erano? in quanti perirono in questa strettoia? – il monaco rispose, percependo qualcosa di sinistro in quanto l’errabondo stava per dire – Ventuno, morirono in ventuno – Arrigo rimase brevemente in silenzio, continuando a fissare i busti immobili, poi parlò, e tutti colsero quanto veniva detto dai due interlocutori – Ci sono ventidue statue. –
Un singolo riverbero metallico scosse la cavità, allorchè la ventiduesima statua abbandonò il luogo dove aveva simulato la sua eterna veglia. Una breve vibrazione accompagnata dal rumore di sette spade che venivano sguainate. Condusse una breve danza fra i busti in pietra, gettandosi fra l’uno e l’altro con l’eleganza e la rapidità di un danzatore nel vento. Il ballo però cessò quando estrasse una daga corta dalla cintura, impugnandola con la lama rivolta verso il gomito. Un solo salto, e l’assassino si librò in cielo distendendo braccia e gambe come un aquila dispiega le ali. La lama si conficcò nella gola di Umberto, che cadde di schiena a peso morto, e l’assassino cadde su di lui.

Il lungo vespro nero