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Il lungo vespro nero

di Alessandro Simonutti

La notte non era mai stata così silenziosa a Rupestretta, il buio così denso e ovattato, e la birra così buona. Sui lunghi bancali della vecchia locanda si avvicendava il solito spettacolo grottesco di visi consumati e barbe incolte, eppure sulla bocca di tutti prendeva forma una strana smorfia, che veniva interrotta solo per portare al volto i boccali rugginosi, e non vi era nessuno che non tacesse. Persino l’oste, abituato a ingaggiare continui esorcismi sui fumosi demoni che l’alcool andava risvegliando notte dopo notte, si limitava ora a strofinare una brocca ammaccata, celando sotto i baffi e le folte sopracciglia una sinistra e insolita amarezza. Gli abitanti della montagna, come in preda a un torpore malarico, rimanevano così, ricurvi sui loro pensieri, gettando ogni tanto qualche sguardo qua e là per osservare meglio il serpeggiare di un malcelato senso di impotenza.

Solo un monaco, piccolo e incappucciato, ruppe il silenzio per avanzare verso il podio in marmo giallastro che occupava il centro della locanda. Camminava con passo convinto, mentre gli altri lo osservavano come fosse una chimera risvegliata per disturbare una quiete necessaria. Il vecchio ometto si issò a fatica sulla fredda pietra e, schiudendo la bocca che non sembrava più grande di un soldo, cominciò a parlare

— Bisogna fare qualcosa, non possiamo accettare questa farsa senza far nulla —

Prima che potesse finire, dal fondo della sala si levò una voce infastidita che lo interruppe bruscamente — Taci, stupido frate ubriacone, quei bastardi di Piandelcorso hanno vinto il sorteggio e così è, torna a bere e non tediarci con le tue fantasie idiote —

Il vecchio, riaccesosi di una fiamma più viva dopo l’iniziale sbigottimento, riprese con rabbia — Come fai a parlare così tu, demente senza terra, vuoi veramente che quei mangiafieno governino la Valle come piace a loro? —

— Nessuno dei presenti lo vuole, o forse non hai notato che ci stiamo ubriacando per non pensarci? Quei bastardi hanno vinto il sorteggio, lo stesso a cui abbiamo aderito anche noi. Ora la questione è chiusa e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è uno scemo chiassoso come te. Quindi ora facci la cortesia di chiudere quella bocca avvizzita e di tornare alla tua birra in silenzio —

Intanto, a coloro che si erano destati dai loro boccali, parve di vedere due sottili luci bianche zampillare da sotto il cappuccio del vecchio, dove con ogni probabilità dovevano esserci i suoi occhi, questo subito prima che egli rispondesse  — Ditemi allora, brutti zotici, ditemi chi di voi crede in un sorteggio organizzato da Piandelcorso stessa in cui casualmente ha vinto proprio lei. Vi siete bevuti quel cervello rattrappito che vi ritrovate? Quegli sporchi mangiafieno effeminati ci hanno teso uno dei loro soliti inganni, pare chiaro, eppure voi piuttosto che muovere un dito fate finta di fidarvi. I vostri padri non vi ripetevano senza motivo che con quei maiali fraudolenti si ragiona con la spada, prima ancora di soccombere sotto i loro stupidi fiumi di parole. Vi siete fatti manipolare come delle bestie da soma e ora, peggio ancora, volete rassegnarvi a farvi annientare piuttosto che ammettere di essere precipitati nei loro intrighi. Rialzatevi da uomini, per Dio, imbracciate asce e lance e mazze, andiamo a riprenderci le insegne della Valle. Ci sarà un motivo se da millenni siamo in guerra coi mangiafieno, ci sarà un motivo se sulla lapide sotto di me i nostri antenati fecero incidere “odio eterno ai figli del fiume, odio eterno a Piandelcorso”. —

Il vecchio concluse il suo sermone e, mentre ancora stava boccheggiando dopo l’impeto appassionato che aveva messo alla prova i suoi anni, non tardò a ricevere una risposta da quell’uditorio attento e svogliato -nessuno sa perché la guerra sia cominciata, forse è ora di smetterla di ammazzarci e basta- e poi ancora -“odio eterno a Piandelcorso” come se qualcuno in tutta la montagna avesse saputo leggere da cinque secoli a questa parte –

Scoppiò una risata improvvisa e famelica, come se tutti quanti la stessero alimentando già da tempo, solo per poterla scagliare senza freno sulle pareti nude della locanda. Gli uomini della montagna, gli uomini della pietra, si guardavano ora divertiti tirando avanti quel loro ridere esasperato e iniettato di rammarico. Prima che la risata si affievolisse del tutto, però, dal tavolo all’angolo del bancone dove l’oste aveva continuato a strofinare la brocca, si udì una voce che infranse bruscamente il clima inverosimile che aveva temporaneamente invaso la stanza.

— Io sto col vecchio —

Tutti si girarono, ammutoliti, per osservare l’uomo che, rimasto chino sulla sua birra, aveva appena spezzato il tacito accordo che prevedeva di non prendere sul serio le parole del piccolo monaco.

Si alzò lentamente, facendo scivolare i capelli corvini sulla corazza in cuoio, anch’essa nera come il cuore di quella notte. La mano destra afferrava una spada che si sarebbe detta lunga come un carro, mentre il fodero graffiava incurante il legno sudicio del tavolo dove l’arma era distesa.

Alessandro Simonutti nasce a Udine nel 1999. Si diploma presso il liceo classico “J. Stellini”, dove partecipa al giornalino Asteriskos come vignettista e autore umoristico. Attualmente frequenta la facoltà di storia presso l’Università ca’ Foscari di Venezia.

Il lungo vespro nero

Parte 2

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